Il capolavoro operistico di Roma 1728 ritrova la via del palcoscenico a Versailles. Franco Fagioli capeggia una delegazione di quattro controtenori. Entusiastica la concertazione di Riccardo Minasi alla testa del Pomo d’Oro
di Francesco Lora foto © Martina Pipprich
CATONE IN UTICA È UNO DEI LIBRETTI D’OPERA più fortunati di Pietro Metastasio: in questo agone degli affetti – come al solito: un vademecum comportamentale per l’uomo moderno – si oppongono il caparbio polo repubblicano di Catone e il trionfante polo monarchico di Cesare. Il principe degli operisti italiani dell’epoca, Leonardo Vinci, fu il primo a porre in musica quei 1703 versi: Roma, Teatro delle Dame, carnevale 1728. Un’aria più geniale e caratterizzata dell’altra, e una compagnia di canto da capogiro: i soprani castrati Carestini, Fontana e Ossi, il contralto castrato Minelli e i tenori Pinacci e Giorgi; compresi, tuttavia, due personaggi femminili.
Strano per i nostri giorni, non per l’epoca e il luogo. Al contrario di quanto si continua a scrivere, a Roma non vigeva alcun divieto papale permanente che impedisse alle donne di calcare le scene; si era però lì fissato l’uso di costituire compagnie di soli uomini, con vantaggi peculiari: a differenza delle donne, i castrati godevano di una formazione canora più accurata, tale da permettere la composizione, la lettura e l’esecuzione di passaggi più complessi e spettacolosi, nonché tale da consentire alle loro voci di sovrastare organici strumentali più massicci (non è un caso che soprattutto le opere romane, più di quelle veneziane o napoletane, prevedano un insistito impiego di corni, trombe e timpani).
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