Con la direzione musicale di Muhai Tang e la regìa di Jürgen Flimm il ritorno ieri nel teatro milanese dell’altro Otello dopo centoquarantacinque anni. Accolto da applausi e fischi
di Ilaria Badino foto Matthias Baus
IL TERZETTO DI PROTAGONISTI è lo stesso che aveva infiammato le notti pesaresi nell’agosto 2007. Dando per assodato che Juan Diego Flórez è rimasto lo stesso osannato belcantista qual era già, per le altre due anime vocali dell’opera rossiniana le sorti si son fatte da allora magnifiche e progressive. Gregory Kunde, nella parte – baritenorile – del titolo, grazie a quell’occasione poté sfoggiare rinnovato vigore nei centri e nei gravi e da lì cominciò una sorta di seconda carriera, approcciando ruoli via via più gravosi tra cui il secondo Moro in ordine cronologico, ça va sans dire quello verdiano, guadagnandosi il plauso incondizionato di pubblico e critica. Olga Peretyatko – che solo nel 2006 era ancora un’allieva dell’Accademia rossiniana –, in virtù di una voce duttile e dal timbro cristallino nonché di un’avvenenza eclatante, è ora ospite in tutte le maggiori istituzioni liriche mondiali ed alla fresca uscita del suo terzo album da solista intitolato, guarda un po’, “Rossini!”.
Lo splendido trio ha lanciato nell’empireo esaltanti fuochi d’artificio anche ieri sera, dando il meglio proprio nelle scene di diretto confronto: il duetto Otello-Rodrigo, che poi sfocia in terzetto con l’arrivo di Desdemona, è un momento altissimo di esibizione di doti canore intrinseche ma, soprattutto, in virtù dello scontro eroico che lascia anticipare sul palcoscenico quel duello all’ultimo sangue che si consumerà al di fuori dello stesso. Agilità, Do grandi come una casa, sguardi fiammeggianti ad indicare stati d’animo infervorati dalla gelosia: come poter negare la modernità della scrittura musicale e della teatralità rossiniana, soprattutto in pagine come queste?
[restrict paid=true]
Anche l’ultimo ed in realtà unico raffronto articolato tra i due sposi, a partire da «Non arrestare il colpo» nel terz’atto, è dramma allo stato puro, in cui all’assillo ormai completamente cieco del condottiero rispondono le fiere proteste d’innocenza di una Desdemona tutt’altro che fragile, mentre il “furor degli elementi” amplifica lo stato di concitazione che li anima e che tanto naturalmente passa, per proprietà di mimesi, ad innervare il pubblico in sala.
Eppure, la sensazione che si è avuta di questa prima è che tutto il cast vocale, sebbene sensazionale, abbia reso un poco al di sotto della propria mirabolante media. E non è difficile capire il perché. Della direzione ci occuperemo più avanti, perché a chi scrive sembra che qualcosa vada prima detto sulla regìa. Da Jürgen Flimm, esponente della corrente germanica della Regietheater, ci saremmo forse potuti aspettare di tutto: invasioni di ultracorpi, stupri di massa (un po’ come pare vada di moda con il Rossini serio ultimamente, vero Royal Opera House?), Otello verde e Desdemona viola e chi più ne ha più ne metta. Ma ciò che si è visto è stato ancora più imbarazzante. Perché è stato il nulla. Scena unica costituita da un’intelaiatura parecchio allungata verso il fondo, di modo che le voci andassero ben disperse all’indietro; un figurante in gorgiera che, svaccato su una sedia, di tanto in tanto ed in secondo piano affinché non desse troppo fastidio, si scolava una bottiglia di vino; almeno una scopiazzatura dall’allestimento di Leiser e Caurier (Zurigo, Anversa e Gand) – contestabile anch’esso ma almeno funzionale in quanto gravitante ed articolato sull’idea ossessiva del razzismo – nell’uso di una lavagna su cui scrivere alcune parole chiave della tragedia; un doge di messinscena in messinscena sempre più tremulo e demente da sembrare ormai una caricatura di Eritreo Cazzulati, il che faceva torto al bravo Nicola Pamio che ne ha cantato le note; last but not the least, un Otello non proprio di colore ma piuttosto pseudo-maori, in onore del quale nel finale dell’atto secondo Desdemona s’imbrattava la faccia con ditate di trucco nero. Se tutto ciò ha un senso, soprattutto visto in un’ottica complessiva, esso non è stato còlto.
Più arduo il discorso riguardo al direttore cinese Muhai Tang. L’Orchestra della Scala, si sa, talvolta è un poco capricciosa, e quando si esce dal repertorio operistico standard la stragrande maggioranza delle responsabilità dell’esito di una sua buona condotta dipende da chi governa la bacchetta e dal suo carisma. Considerando il fatto che l’Otello di Rossini non veniva rappresentato nel tempio scaligero da centoquarantacinque anni, si temeva una certa mancanza di dimestichezza. È pur vero che il Cigno di Pesaro dovrebbe essere nelle vene dei professori di un’orchestra italiana quanto Verdi e Puccini, e che il contrario non sarebbe giustificabile. Premesso ciò, il suono orchestrale è stato pressoché impeccabile; sono state piuttosto alcune lentezze ad aver più volte messo in disarmo i cantanti, che faticavano a tenere a bada talora il giusto impeto talaltra una linea morbida ma non letargica, come richiesto dalla partitura.
Alla fine dello spettacolo, grande successo – che in alcuni casi ha sfiorato i picchi del trionfo – tributato a tutti i membri del cast (non dimentichiamo la possente cavata di basso di Roberto Tagliavini quale Elmiro, l’impeccabile Annalisa Stroppa nei panni di Emilia e, soprattutto, il bravissimo contraltino dalla puntatura facile Edgardo Rocha). Il fatto che Jago dovrebbe avere voce più grave ancora e non più acuta rispetto a quella del protagonista è ormai consueto errore di casting e quindi non certo imputabile al dotato tenore uruguagio. Il tutto è stato infine coronato da eterni «buu» al direttore ma, principalmente, al regista. Come Scala comanda (Milano, Teatro alla Scala, 4 luglio 2015)
[/restrict]