Manfred Honeck dirige l’Ottava Sinfonia di Dvořák e il Terzo Concerto per pianoforte di Prokof’ev con il solista Behzod Abduraimov. Ma anche tanti altri interpreti presenti al Festival svizzero, tra i quali Leonidas Kavakos, Gautier Capuçon e Lawrence Power
di Luca Chierici Foto © Aline Paley
L’ORCHESTRA DEL FESTIVAL DI VERBIER è formata da giovani di ogni nazionalità – il Patron della manifestazione, Martin T. Engstroem le ha elencate tutte all’inizio della serata del 26 Luglio, di fronte a un pubblico nutrito che vedeva anche la prestigiosa presenza di Zubin Mehta – con una particolare presenza di elementi statunitensi e, purtroppo, un solo italiano. Nel corso degli anni l’orchestra è diventata un organismo continuamente cangiante che ha avuto la fortuna di essere addestrato da ottimi docenti e di trovarsi al cospetto di direttori famosi che ne hanno di volta in volta plasmato le caratteristiche. Manfred Honeck, direttore austriaco poco invitato in Italia, andrebbe sicuramente valorizzato perché in possesso, oltre che di una tecnica efficacissima, di un particolare capacità di approfondimento dei classici e del repertorio delle sue terre d’origine. La definizione dell’Ottava Sinfonia di Dvořák è stata di livello eccezionale e Honeck ha trovato nell’orchestra un elemento perfettamente rispondente alle sue aspettative. Questo direttore schivo e vagamente assomigliante nell’immagine a Carlos Kleiber riesce a lavorare con i ragazzi di Verbier con gesti di rara essenzialità e a comunicare un entusiasmo palpabile per la gioiosa partitura che un tempo si eseguiva piuttosto di rado e che l’autorità di Karajan impose nuovamente al pubblico verso la metà degli anni Settanta attraverso dei memorabili concerti a Salisburgo.
Nella prima parte della serata, Honeck aveva aperto il programma con la popolarissima Suite tratta dal Rosenkavalier di Strauss, della quale si è forse sottolineato il carattere più wienerisch e un poco rozzo di certi tempi di valzer piuttosto che gli struggimenti di un testo che rimpiange il tempo e gli amori perduti. Al centro del programma vi era l’abusatissimo Terzo concerto per pianoforte e orchestra di Prokof’ev attraverso il quale non è davvero facile giudicare della bontà di un pianista se non per la velocità e la destrezza con la quale vengono eseguiti passaggi difficilissimi. Il giovane Abduraimov – che molto stimiamo – ha affrontato però la sua parte con una convinzione che raramente traspare dall’approccio di molti suoi colleghi, giovani e meno giovani, e ha soggiogato il pubblico con la forza di una musicalità del tutto spontanea quanto sorretta da una preparazione di ottimo livello.
Il calendario del Festival di Verbier è da alcuni anni così ricco di proposte da rendere praticamente impossibile al visitatore l’ascolto di concerti che spesso si tengono contemporaneamente in luoghi differenti o che impongono un vero e proprio tour de force dalla mattina a tarda serata. Ma anche la frequentazione quotidiana di almeno un appuntamento, a meno di non essere vissuta come una semplice scadenza da “sindrome di abbonamento”, non dà la possibilità di sedimentare a dovere ricordi e impressioni che scaturiscono da eventi spesso molto significativi per il loro contenuto musicale e per l’eccellenza delle esecuzioni. La sera successiva al concerto di Honeck ci vedeva catapultati nello spazio più angusto dell’Église in compagnia di cinque solisti impegnati in un programma bipartito che offriva l’opportunità di ascoltare due capolavori della musica da camera per archi. Leonidas Kavakos, Gautier Capuçon e Lawrence Power sono stati i sensibili interpreti di quell’unicum che è il Trio K 563 per violino, viola e violoncello di Mozart e hanno guidato il pubblico attraverso i sei movimenti di un percorso sublime che culmina nelle variazioni dell’Andante. Con una virata espressivamente molto impegnativa, ai tre solisti si sono aggiunti la seconda viola Blythe Teh Engstroem e il violino di Pamela Frank per il secondo Quintetto op.111 di Brahms, dove Kavakos ha scandito l’attacco dell’animato finale sottolineando il piglio ungherese che caratterizza molte partiture cameristiche di Brahms. Grande successo e bis dell’ultimo movimento.