Rara esecuzione del capolavoro napoletano in un teatro d’opera periferico. All’assenza di divi del belcanto corrispondono qualche inadeguatezza e meriti individuali
di Francesco Lora
SENZA CHE I TEATRI DEL MONDO afferrino la palla al balzo per festeggiare, le opere di Gioachino Rossini stanno compiendo proprio in questo periodo, una dietro l’altra, i loro primi duecento anni. Un’eccezione si è avuta non dai teatri che tennero battesimo i capolavori (Venezia, Milano e Napoli in primis), né dai festival di Pesaro o di Bad Wildbad, rossiniani nella sostanza ma poco interessati alle cifre tonde. Al contrario, essa è venuta da un’istituzione di produzione operistica tra le più periferiche d’Italia, l’Ente Concerti “Marialisa de Carolis” di Sassari, con dosi miste di intraprendenza, sperimentazione, buona sorte e avventatezza.
Nessun teatro al mondo vantava, nel primo Ottocento, la compagnia di canto del San Carlo; e per nessun’altra compagnia Rossini ideò una scrittura vocale altrettanto impervia e selettiva
Il sipario si è aperto, per due sole recite (9 e 11 ottobre), sull’Elisabetta regina d’Inghilterra, esordio di Rossini al Teatro di San Carlo di Napoli e titolo oggi più citato in musicologia che restituito all’ascolto del pubblico. Ma per la storia dell’opera, Sassari non è Napoli, né il sancta sanctorum del San Carlo ha molto da spartire con l’irrazionale Teatro Comunale, recente costruzione che soffoca l’orchestra in una profonda cisterna semicoperta dal palcoscenico, e che assorda il canto tra platea e gallerie dall’acustica disarmante.
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