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Gabriele Ferro alla direzione dell’Orchestra del Teatro Massimo e la regìa di Roberto Andò per una rappresentazione che dialoga con il pubblico
di Monika Prusak foto © Rosella Garbo
ALLEGGERIRE Il flauto magico da «ingombranti simboli e oscurità» per lasciare che la musica illumini il senso: è questa la premessa con la quale Roberto Andò firma la messa in scena del singspiel mozartiano al Teatro Massimo di Palermo. L’interpretazione di Andò, supportata dall’armoniosa collaborazione di scene e luci oniriche di Gianni Carluccio, si concentra, infatti, sulla leggerezza coinvolgente della fiaba, accentuandone soprattutto gli aspetti comici con protagonisti che scendono spesso in platea, per dialogare con un pubblico divertito e sorpreso. Ci si dimentica quasi della musica, che risulta velata, come se il tessuto sonoro – si tratta dell’ultimo Mozart, quello del Requiem e dell’Ave verum corpus, che echeggia nei cori del Flauto – fosse soltanto un sottofondo che segna il ritmo della rappresentazione. Tuttavia, Gabriele Ferro alla guida dell’Orchestra del Massimo regala numerosi momenti di bellezza, lasciando qualche rallentamento fuori posto ai solisti.
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L’idea di Andò non avrebbe potuto realizzarsi appieno senza un cast di livello, capace di trasmettere allo spettatore una partitura complessa con un’ampia parte parlata. Se ci si aggiunge la lingua tedesca l’impresa sembra quasi impossibile e invece accade l’esatto contrario: il pubblico rimane affascinato e incuriosito da questa vicinanza con gli artisti e dalla loro intraprendenza e freschezza. Il protagonista assoluto del palcoscenico è Markus Werba, un Papageno efficacissimo, la cui scioltezza e naturalezza si mescolano con timbro e tecnica vocale impeccabili. Werba è anche un ottimo attore, che padroneggia senza scrupoli la scena che il pubblico, fino a rubare un bacio inaspettato a una spettatrice incantata.
Non da meno è la figura di Tamino interpretato da Paolo Fanale, anche se il carattere del personaggio è l’opposto del primo. I due cantanti creano un contrasto evidente sempre in vena comica e leggera, come una coppia padrone-servo perfettamente mozartiana e ricercata. Il terzo protagonista è Sarastro di Andrea Mastroni, che domina sul palcoscenico con una figura possente e una voce dalla profondità impressionante e robusta. Il timbro grave ma carezzevole della voce di Mastroni dipinge un carattere deciso e giusto, più paterno che autorevole. Una nota di merito va anche a Monostatos, personaggio squallido e maschilista, letto da Alexander Krawetz in chiave umoristica e quasi pirandelliana.
Tra le donne la più bella e eterea è Pamina, impersonata da Laura Giordano, la cui voce dolce e suadente rende al meglio questo personaggio femminile assai debole e ingenuo. Incantano la leggerezza e la naturalezza con le quali la cantante affronta il registro acuto, sebbene qualche indistinto portamento e una poca legatura nell’aria solista disturbino l’eccellenza dell’esecuzione. Ben assortita è anche la Regina madre, interpretata magnificamente da Cornelia Goetz, che, tuttavia, presenta poca omogeneità nel registro sovracuto. Molto divertenti e ben affiatate, anche se con qualche scivolamento negli attacchi, risultano le Tre dame, Anna Schoeck, Annette Jahns e Christine Knorren, già apprezzata dal pubblico palermitano in una delle Figlie del Reno nel Ring wagneriano del 2013. La ciliegina sulla torta sono i Tre fanciulli con i loro canti polifonici che esaltano il lato misterioso ed etereo dell’opera, Emanuela Ciminna, Federica Quattrocchi e Riccardo Romeo del Coro di voci bianche diretto da Salvatore Punturo. La rappresentazione è completata dal Coro dei sacerdoti con quell’aria decadente dell’ultimo Mozart che, eseguita dal Coro del Teatro Massimo, distoglie efficacemente dalla narrazione comica.
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