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Ouverture e Danze dal Guillaume Tell e lo Stabat Mater. Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna per l’apertura della stagione 2015-16 del Lingotto Musica di Torino
di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
PER INTERO NEL SEGNO DI ROSSINI la serata inaugurale per la stagione 2015-16 dei concerti di Lingotto Musica, ieri sera, martedì 20 ottobre 2015, a Torino, Auditorium ‘Giovanni Agnelli’, con Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna. Sul podio il pesarese Michele Mariotti, dal 2014 direttore musicale dell’istituzione bolognese, classe 1979, tra le più acclamate bacchette della sua generazione, di casa al Gewandhaus di Lipsia come al Met, alla Scala e al Covent Garden. Ed è ben più che una coincidenza il fatto che un giovane direttore nato e formatosi nella città natale di Rossini, proprio al genio pesarese abbia deciso di consacrare il programma prescelto per questa inaugurazione. Che la musica rossiniana, infatti, sia ben radicata nelle corde di Orchestra e Coro del Comunale bolognese lo si è capito fin dai primi istanti.
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E allora ecco un programma dall’equilibrato dosaggio, in bilico tra sacro e profano, il sacro del superbo Stabat Mater e il profano del Guillaume Tell, col quale Rossini, pur sostanzialmente estraneo alla sensiblerie romantica, si sa, aprì ben più d’un cauto spiraglio su quel mondo, mostrando che sapeva il fatto suo anche in un territorio a lui poco congeniale.
Non solo la celeberrima Ouverture, bensì una sequenza di cinque danze costituivano la parte iniziale della serata. Mariotti, lavorando di bulino e cesello, ha ben distillato l’intimismo cameristico dell’esordio, col violoncello in primo piano, a primeggiare tra gli archi. Poi ecco gli squassi del temporale, reso con efficacia, e pur senza eccessi, quindi la pacata radura agreste, le bucoliche sortite dei fiati, più propriamente l’indimenticabile melodia del corno inglese e le arcadiche pennellate volte a rendere gli spaziosi orizzonti alpini con tanto di ranz de vaches. Poi l’atteso appello di trombe e corni e via con l’irrinunciabile cavalcata affrontata con entusiasmo ed esuberante allure, ma anche con molta eleganza.
Quindi le danze, a partire dal Choeur dansé degli svizzeri «Hyménée, ta journée fortunée» in cui il coro, istruito da Andrea Faidutti, ha subito mostrato la propria caratura, affrontando tale pagina con nobile e flessuoso incedere. Molto apprezzata la grazia con cui Mariotti ha evitato appoggi ritmici troppo marcati e ‘montanari’ nell’imitazione di canti popolari in guisa di jodel. Arguzia e grazia salottiera in calibrato equilibrio nel Pas de six dove Mariotti ha fatto del suo meglio per evitare quel che di ripetitivo insito nelle danze stesse dai ritmi squadrati. Bella prova del coro nel Pas de trois et Choeur tyrolien dai fraseggi staccati ed assai apprezzata la naturalezza dei raccordi ritmici («Dans nos campagnes»). Da ultimo il rusticale e bonario Pas de Soldats che pure, nella sua rutilante spensieratezza, contiene deliziose raffinatezze armoniche e non poche squisitezze timbriche ben evidenziate da Mariotti.
Piatto forte della serata, e siamo sul versante sacro (ma con ampie reminiscenze dall’universo teatrale), lo Stabat Mater dal toccante esordio: con quelle sfuggenti, enigmatiche armonie di settima diminuita, e il tortuoso, sofferente itinerario melodico. Molto amalgamati i solisti in questa prima sezione dello Stabat, un pool di eccellenti voci e si trattava del soprano iberico Yolanda Auyanet, del mezzosoprano Veronica Simeoni, del tenore Antonino Siragusa e del navigato basso Michele Pertusi. Di grande impatto emotivo la lancinante affermazione «Dum pendebat Filius» circonfusa da un singolare colore cinereo e immersa in un tessuto strumentale di forte spessore. Poi la sortita solistica del tenore nel «Cujus animam gementem», di fatto un’aria di stampo smaccatamente teatrale. Da cui le accuse alla partitura rossiniana di non essere sufficientemente ‘sacra’ e le eterne interminabili diatribe. Siragusa s’è confermato un professionista di indubitabile solidità, affrontando la parte con gusto e baldanza, giù giù sino alla virtuosistica cadenza. Così pure «Qui est homo» è un duetto teatrale, e in esso le voci femminili hanno avuto modo di farsi ammirare in tutto il loro nitore.
Bene Pertusi, icastico e solenne comme il faut, in «Pro peccatis» dall’iniziale minaccioso rombare di timpani. Superba la prova del coro (a cappella) in «Eja Mater» con sillabati da brivido (le voci maschili, inizialmente, cui si aggiungono quelle femminili) e un colore che pare in anticipo su certo Verdi. Ritmi pimpanti in «Sancta Mater» e allora le (comprensibili) accuse di un certo iato – o gap come si dice oggi – tra il testo e il rivestimento musicale che occhieggia vistosamente le scene. Ma il tessuto armonico è di notevole interesse e il basso, infine, assume toni drammatici; e nell’interpretazione di Pertusi ha raggiunto vertici di toccante intensità. I fiati a far da collante rispetto al mezzosoprano in «Fac ut portem» (e un personale successo per Veronica Simeoni).
Da lì in poi lo Stabat decolla. Ed ecco allora i richiami delle trombe e il tempestare del timpano («Inflammatus et accensus») che conferiscono un colore già prossimo alla verdiana Messa da Requiem ed è il passo in cui lo Stabat Mater raggiunge forse i vertici di maggior intensità drammatica con gli acuti svettanti del soprano che sforano la pasta dell’orchestra. Poi lo stupefatto, attonito procedere del coro a cappella in «Quando corpus morietur» dal vasto spettro dinamico che Mariotti ha evidenziato con gusto e infine la sublime, conclusiva Fuga su «In sempiterna saecula» dalla corposa densità sinfonica. Da ultimo il coup de théâtre della sospensione su una settima e la ripresa dell’esordio, con le sfingee armonie. Tutti tratti emersi al meglio nell’interpretazione di Orchestra e Coro del Comunale e grazie al determinante apporto di un cast davvero di classe.
Un buon preludio per una stagione che si presenta ricca di bei nomi del gotha internazionale, direttori, solisti e complessi di rango. Prossimo appuntamento già il 31 ottobre, con i Dodici Cellisti dei mitici Berliner Philharmoniker e un programma variegato che spazia da Bach e Piazzolla, passando per l’elegante Fauré, il sudamericano Villa-Lobos ed altri. Al Lingotto, ovviamente, come sempre entro lo scrigno progettato da Renzo Piano: dall’impareggiabile acustica, per intero rivestito in legno di ciliegio.
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