Il grande mezzosoprano è ancora Charlotte nell’allestimento con lei varato dieci anni or sono: regìa di Serban, Polenzani protagonista, infallibile orchestra dello Staatsoper
di Francesco Lora foto © Wiener Staatsoper – Michael Pöhn
TRA I MIGLIORI ALLESTIMENTI SCENICI in uso allo Staatsoper di Vienna figura un Werther di Jules Massenet con regìa di Andrei Serban, scene di Peter Pabst e costumi di Pabst stesso e Petra Reinhardt. È stato varato nel 2005 e, a distanza di dieci anni, nulla è finito col perdere e nulla ha dovuto mutare. Il punto forte sta nella struttura scenica: un grandioso albero secolare domina il palcoscenico e lo divide in spazi di primo e secondo piano; si lascia percorrere dai personaggi tramite ponti e li fa agire su più livelli; segnala con il verdeggiare, l’ingiallire e il cadere del fogliame il passare inesorabile del tempo. Il taglio degli abiti indossati e il televisore in bianco e nero definiscono la trasposizione della vicenda agli anni ’50 del Novecento, mentre la regìa sparisce discreta nella didascalia rivivificata, nell’agio attoriale dei cantanti, nella chiarezza dell’enunciato e nella letteralità del messaggio.
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Dal 2005 a oggi, protagonista prevalente delle 55 rappresentazioni è rimasta Elīna Garanča, allora ragazzotta più che promettente e ora avvenente diva sul trono dello star system: il sontuoso velluto di timbro ed emissione è sempre intatto, viepiù sagacemente tutelato ed esibito, un poco compiaciuto e non senza ragione, sovrapponibile ai modelli più o meno consapevoli di Lucia Valentini Terrani e Daniela Barcellona; nell’invidiabile evoluzione della carriera si è invece smarrito qualcosa dell’ardore giovanile che prima trascinava e oggi riscalda appena. L’empatia del pubblico si sposta così dalla parte di Charlotte a quella di Werther. Fatto curioso: proprio il tenore sarebbe l’anello debole delle quattro recite qui recensite (11-20 novembre); Matthew Polenzani ha infatti scarso appeal timbrico e risonanza modesta, cui supplisce però con ortodossia tecnica e musicalità immacolata.
Assai ben risolte le parti secondarie, dall’Albert asciutto, signorile e distaccato del baritono Markus Eiche alla scoppiettante e mai petulante Sophie della soubrette Hila Fahima. Decoroso il comprimariato, che annovera alcuni tra i più assidui stipendiati del teatro: Alfred Šramek, Peter Jelosits e Mihail Dogotari. Referenziata in Massenet, la direzione di Frédéric Chaslin dà infine fuoco alle polveri dell’Orchestra dello Staatsoper: gorghi romantici, smalti liberty, involi celestiali, echeggi corruschi trasmutano gli uni negli altri con divertita infallibilità, secondo il criterio della concertazione infusa e quasi con le file strumentali a precedere la bacchetta. Delizioso il coro di voci bianche, rifinito come solamente se ne possono trovare sotto la disciplina e la dedizione germanica. Cordiale successo di pubblico, con applausi tuttavia destinati a svanire dopo poche chiamate.
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