Ligeti e Chopin, Carlo Mosso e Debussy, Liszt e Alberto Colla: un percorso trasversale nel concerto del Festival Estovest
di Marco Testa foto © Luis Redondi
DOPO AVER ASSISTITO al concerto tenutosi nella sala del Teatro Vittoria di Torino lo scorso venerdì sera, nell’ambito del Festival Estovest 2015 promosso dallo Xenia Ensemble, vengono spontanee alcune considerazioni, a cominciare dalla seguente: è incredibile che un musicista del livello di Gianluca Cascioli attualmente non calchi le scene dei maggiori teatri del mondo, come senz’altro meriterebbe e come d’altra parte era per lui ordinaria amministrazione in anni passati, quando si rendeva protagonista di produzioni coordinate da monumenti quali Claudio Abbado, Riccardo Muti, Lorin Maazel, Zubin Mehta o Mstislav Rostropovich, per non citarne che alcuni; ora, il primo a esserne ‘danneggiato’ è il pubblico, che tuttavia venerdì ha avuto un’occasione in più per ascoltare una performance non comune (occasione però non sfruttata appieno, come testimonia, complice probabilmente una pubblicistica non sufficiente, una sala non vuota ma non proprio affollatissima): il controllo che Cascioli mostra di avere rispetto a tutti gli elementi della composizione, il senso di sicurezza e di agio che è capace trasmettere all’ascoltatore, la chiarezza espositiva, sono elementi propri di un pianismo maturo e di un musicista di livello altissimo.
Cascioli ha aperto la serata con lo Studio n.2 tratto dal primo libro degli Studi per pianoforte di Ligeti, seguito dallo Studio n. 4 della stessa raccolta. Dal carattere assai differente rispetto alla riflessiva calma del precedente, in questo secondo brano dal sapore vagamente jazzistico il pianista torinese ha potuto offrire un primo saggio del proprio virtuosismo, un virtuosismo del colore che rimanda inevitabilmente a un ricordo di marca impressionista, elemento ricorrente nel suo pianismo e che inocula persino nei cinque studi di Chopin conclusivi della serata: intendiamoci, a qualcuno questo modo di approcciarsi all’autore dei Notturni avrà fatto storcere il naso, avendovi ravvisato poco del sofferto émpito di un uomo provato dalla triste sorte della sua Polonia, terra spartita, violata e violentata a più riprese; un pianismo insomma eccentrico, forse, rispetto alla poetica del compositore polacco: ma se così fosse ciò è stato frutto di una scelta oltre che riflesso diretto di un sentire musicale personale.

Se gli occhi del pubblico erano puntati su Cascioli (compreso il Cascioli compositore del quartetto Semplice per violino, viola, violoncello e pianoforte) ottima impressione ha suscitato anche lo Xenia Ensemble: dopo ventanni di collaborazioni con celebri compositori del nostro tempo, da Simon Holt al nostro Giulio Castagnoli, da Alexander Raskatov ad Arvo Pärt, si è confermato una garanzia per l’esecuzione del repertorio contemporaneo. Nel Quartetto per archi n. 3 Hyperthematic del compositore alessandrino Alberto Colla, i violini di Lucia Hall ed Eilis Cranitch, la viola di Daniel Palmizio e il violoncello di Claudio Pasceri hanno ben messo in evidenza l’elemento ritmico, percussivo della composizione, legato indissolubilmente a un frequente tematismo (da qui il titolo Hyperthematic) sempre in prima linea e che non concede distrazioni.
Tutto in questa serata appare calcolato con cura certosina, così pure la scelta di accostare autori molto diversi tra loro come Ligeti e Chopin, Carlo Mosso e Debussy, Liszt e Alberto Colla (presente quest’ultimo in sala): la scelta dei brani era, nella visione degli interpreti, giustificata da una trama comune tra gli stessi; non quindi un cocktail di composizioni prive di unità, ma una scelta d’insieme che intendesse valorizzare quasi ogni brano in funzione di un altro alla ricerca di una certa organicità. E, come ha insegnato la critica del compianto Edward Said, anche questo elemento contribuisce a distinguere un interprete che suona bene da un interprete colto che suona bene, che sa offrire al proprio pubblico una visione unitaria, pienamente giustificata, del programma che propone. La differenza, insomma, tra un interprete di passaggio e un interprete che rimarrà nella memoria.