L’opera verdiana inaugura la stagione del Teatro Comunale: eccezionale cura nella concertazione e due notevoli quartetti vocali
di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
PARE IERI DALL’ULTIMO ATTILA VISTO AL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA. Anno 1999: Michele Pertusi al debutto nella parte eponima, fraseggiata e colorita con minuzia irripetibile; Dimitra Theodossiou al momento della sua rivelazione, con la platea attonita di fronte a ‘questa greca’; allestimento capitale di Pier Luigi Pizzi, eretto sul selciato di una strada romana e con un Finale I che, tramite soli due angeli inclinati, metteva le vertigini per virtuosismo prospettico. Pare ieri; ed ecco che la scalpitante opera verdiana torna, dopo diciassette anni, per inaugurare la nuova stagione d’opera felsinea: sette recite dal 23 al 31 gennaio.
Alla testa dell’orchestra bolognese, Michele Mariotti mostra una volta di più la ricetta che, con rare eccezioni, lo distingue dagli altri giovani del podio nonché dagli ubiqui mestieranti di vecchia data
Nuovo allestimento scenico con regìa di Daniele Abbado; scene, costumi e luci di Gianni Carluccio, coadiuvato negli abiti da Daniela Cernigliaro; coproduzione col Teatro Massimo di Palermo e La Fenice di Venezia. Coproduzione scalognata: didascalie malamente seguitate, come e quando càpita, senza che si colga analisi psicologica e drammaturgica; cantanti che recitano assai bene rispetto alla loro personale esperienza, ma assai male se il merito sia da attribuire a un regista; palcoscenico ricoperto di astratti pannelli rugginosi, con un funesto effetto camino che aspira le voci e le rapisce in soffitta; continui cambi di scena a sipario chiuso, ciascuno dei quali lungo (lungo!) tre-quattro minuti, a fronte di numeri musicali stringatissimi: con l’esilarante dettaglio che, al riaprirsi della tela, nulla sotto gli occhi è cambiato rispetto a prima. Magazzini subito.
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Il discorso musicale, però, è da stupore. Alla testa dell’orchestra bolognese, Michele Mariotti mostra una volta di più la ricetta che, con rare eccezioni, lo distingue dagli altri giovani del podio nonché dagli ubiqui mestieranti di vecchia data: prende le opere di repertorio che tutti conoscono e il genere popolare che tutti praticano, ma li studia come fossero cosa nuova, intoccata, maggiore della loro tradizione, preziosa nei dettagli come uno Chopin. Fa ciò che è ovvio e dovuto, ma è il solo a farlo o quasi. Da ciò si ricavano: tempi che respirano con la voce, senza perdere nerbo e morso nelle strette; la strumentazione trascendente della romanza di Odabella, rifinita fino a estenuare nelle mezzetinte il senso del metro; l’accompagnamento a cellule ritmiche e melodiche fisse, che però è sempre diverso da sé stesso, a ogni mezza battuta, grazie a una continua flessione dinamica e a una ficcante direzione della frase. È un Verdi dove nulla passa inosservato e nulla rischia la calligrafia: al contrario, tutto vi è compreso e restituito con una naturalezza, un istinto e un’umiltà da lasciare a bocca aperta. E le due compagnie di canto confermano e sorprendono a loro volta.
V’è l’Attila di Ildebrando D’Arcangelo, con la sua voce di carnosità tenebrosa, suadente nel canto sommesso, impavida nel puntare il Sol acuto, rocciosa nell’energia delle consonanti, in vista di un personaggio più introverso che analitico, più dubbioso che arrogante, il quale emerge soprattutto – e contro l’usato – nell’esitante balbettio del Finale I. V’è l’Ezio di Simone Piazzola, non troppo rigoroso ma traboccante di bontà tecnica, mezzi generosi, franca comunicativa, tali da far tirare un sospiro di sollievo a chi dubiti di avere, domani, un baritono verdiano di riferimento. V’è l’Odabella di Maria José Siri, che accetta la sfida e dà una lezione: là dove si usa mandare allo sbaraglio voci torrenziali, ella si presenta da soprano lirico e vi spreme la passione dell’interprete avveduta, capace di comprendere insieme l’amorosa e l’eroina, il canto elegiaco e quello di sbalzo. V’è infine il Foresto di Fabio Sartori, lo stesso di diciassette anni fa, che allora infastidiva per affanno, fibrosità e senso d’insicurezza, e che ora si ritrova invece risonante, timbrato, raro caso di tenore che non infonda apprensione.
Notevole anche la seconda compagnia, capeggiata da un Riccardo Zanellato onesto, maturo, pragmatico, Attila incredulo e in uno stesso tempo rassegnato di fronte al tradimento della sua Giuditta. Mezzi a loro volta ordinari nell’Ezio di Gezim Myshketa: ma che morbidezza di legato, che misura di fraseggio, che equilibrio d’armonici a comporre il timbro! Stefanna Kyvalova, già seconda Lady nel recente Macbeth bolognese e ora Odabella, onora gli auspicii: canto vetroso per impeto d’emissione, ma tonico e sicuro, spavaldo e incisivo, attento all’esattezza della coloratura come a quella della pronuncia. Grazia, stilizzazione e delicatezza timbrica costituiscono il Foresto di Giuseppe Gipali, con quel velo di monotonia espressiva che non disdice a un tenore romantico non protagonista. Funzionale l’Uldino di Gianluca Floris e da tenere d’occhio il giovane Antonio Di Matteo come Leone. Eccellente il coro del teatro, tanto nitido nella lettura quanto animoso nel temperamento e sontuoso nella somma timbrica.
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