Programma impegnativo per il pianista statunitense; Hammerklavier, due sonate mozartiane, Klavierstücke e Intermezzi di Brahms
di Luca Chierici
Per il suo recital milanese di quest’anno Murray Perahia ha proposto al pubblico fedele del “Quartetto” un programma di difficoltà estrema che vedeva sicuramente nella Sonata op. 106 di Beethoven il momento di maggiore impegno. La prima parte della serata si è aperta con il Mozart del Rondò K. 511 e della Sonata K. 310, due momenti tipici di un modo di intendere la musica pianistica del salisburghese secondo coordinate ancora riconducibili alla tradizione ottocentesca. Nulla di male, in un periodo storico in cui gli interpreti si affannano a trovare sempre nuove giustificazioni per sostenere la riproposta del repertorio classico, ma un gesto che conferma ancora una volta come le scelte di Perahia spesso non vadano al di là di un omaggio alla tradizione. E sul rispetto della tradizione e sulla dote innegabile della padronanza di un suono di qualità sempre eccellente e seducente, Perahia gioca come sempre tutte le sue carte.
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L’impostazione del pianista americano richiede innanzitutto una chiarezza di esposizione che in passato è stata spesso turbata da frequenti piccole perdite di controllo più percepibili che nel caso di altri esecutori. Sarà stato anche a causa del trillo inopinato di un cellulare, o dei fischi degli apparecchi acustici (altro flagello delle sale da concerto frequentate da spettatori agés, per i quali sarebbe opportuno organizzare dei corsi di spegnimento celere dei dispositivi elettronici) ma quello che poteva essere un incipit meraviglioso è stato parzialmente rovinato da un evidente nervosismo che ha portato Perahia a non dominare del tutto la poesia e le note del Rondò, pagina di bellezza estrema. Mettendo da parte qualsiasi precauzione, Perahia si è poi gettato a capofitto sulla tragica Sonata in la minore, intesa ancora una volta tradizionalmente come sfogo dolorosissimo del giovane Mozart colpito dalla morte della madre a Parigi, nel bel mezzo di un non felice viaggio che avrebbe dovuto assicurare un nuovo fiorente mercato per il compositore. Qui il pianista ci è sembrato come completamente immerso in una musica travolgente, a tutto vantaggio di una esecuzione memorabile, sofferta e priva di ostacoli. Va dato atto a Perahia anche il fatto di avere sottolineato con intelligenza la chiave comune alle due composizioni, ossia l’intermezzo in la maggiore che rischiara per un attimo l’atmosfera cupa dell’insieme.
Non è la prima volta che il pianista propone nei suoi programmi delle piccole antologie di pezzi di un singolo autore, non collegati da particolari motivi di consequenzialità: di solito accadeva con Chopin, mentre ieri è stata la volta del Brahms dei Klavierstücke. In questi casi le scelte sono sempre opinabili ma non abbiamo davvero compreso il motivo per cui si è optato per l’op. 116 n. 1 come numero finale, essendo chiaramente questo Capriccio una pagina che inizia un discorso, non che lo conclude. Qui il nervosismo ha ancora compromesso il libero fluire della musica: con Perahia, tranne che in alcune occasioni particolarmente felici – cosa che era capitata negli ultimi due appuntamenti al Quartetto – capita di trovarsi nella condizione di una perpetua allerta in vista di una perdita di controllo che innegabilmente turba l’integrità dell’ascolto.
Il nome di Rudolf Serkin, legato a Perahia e al Quartetto da molteplici connessioni, aleggiava su gran parte del programma, dal Rondò mozartiano agli Intermezzi in mi minore e do maggiore dell’opera 119 e soprattutto sulla cosiddetta “Hammerklavier”, pagine ascoltate dal grande artista nei suoi appuntamenti milanesi. Di quest’ultima ricordiamo molto bene una lettura di grande intensità – sono passati quasi quarant’anni – e un controllo tecnico straordinario da parte dell’allora settantacinquenne celebre pianista. Visto il percorso della serata non ci si aspettava da Perahia, che sentivamo per la prima volta nella “106”, né una scelta di tempi “filologica” né una esecuzione immacolata. Gli errori ci sono stati, e molti, nei primi due movimenti, mentre al contrario di ogni aspettativa il pianista ha superato gli ostacoli della Fuga con ammirevole concentrazione e ha dato dell’Adagio una lettura colma di poesia e di fascino timbrico.
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