Il gruppo austriaco, diretto da Leonhard Garms, ha proposto pagine di Sara Caneva, Gabriele Rendina Cattani, Denovaire, Johannes Maria Staud, Webern
di Marco Testa
Sala gremita quella dell’Auditorium Lattuada di Milano lo scorso 24 febbraio per l’esibizione dello Schallfeld Ensemble, formazione nata in Austria, a Graz, e pressoché interamente votata all’esecuzione e alla ricerca del repertorio contemporaneo. Si tratta di un gruppo giovane, tanto per il dato puramente anagrafico dei suoi membri quanto per gli anni di attività sulle spalle (lo Schallfeld si è formato nel 2011) e purtuttavia trattasi di una tra le più interessanti realtà operanti sulla scena internazionale in tale ambito. Il suo nerbo è formato da musicisti provenienti da mezza Europa, contando, oltre a due austriaci (il percussionista Manuel Alcaraz Clemente e il direttore Leonhard Garms –quest’ultimo cresciuto però in Italia), tre italiani (la flautista Elisa Azzarà, la pianista Maria Flavia Cerrato e il violinista Lorenzo Derinni), una spagnola (la violoncellista Myriam García Fidalgo), uno sloveno (il sassofonista Matej Bunderla), un ungherese (Szilárd Benes al clarinetto) e una tedesca infine (Margarethe Maierhofer-Lischka al contrabbasso).
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Il livello esecutivo e la maturità musicale dello Schallfeld non si discute, come è stato riconosciuto pure da autorevoli personalità che appartengono al panorama musicale contemporaneo: il gruppo ha infatti lavorato a stretto contatto con autori del calibro di Francesco Filidei, Georg Friedrich Haas e Franck Bedrossian (per non citarne che alcuni); quest’ultimo (di cui al Lattuada è stato eseguito un brano dalle sonorità jazzistiche, intitolato It) ben sapeva di trovarsi in buone mani: «Quando si vuole parlare di un giovane ensemble», ha affermato il compositore francese prima del concerto, «l’aggettivo più usato in questi casi è “promettente”, ma nel caso dello Schallfeld ciò sarebbe senz’altro riduttivo. Questo ensemble, con cui ho già avuto modo di lavorare, è già assai più di una semplice promessa: è semplicemente straordinario».
Il concerto in questione s’inserisce nel quadro di Sound of Wander, un progetto promosso dall’ASPMC (Associazione per lo Studio e la Promozione della Musica Contemporanea), sorta a Milano per iniziativa della musicologa Giulia Accornero e del compositore Francesco Venturi e del cui consiglio direttivo fanno pure parte i compositori Maurizio Azzan e Giulia Lorusso. L’ASPMC si propone un obiettivo importante quanto necessario, consistente appunto nel valorizzare e promuovere la musica contemporanea in Italia attraverso una serie di concerti, d’incontri d’interesse musicologico, e ancora di promuovere masterclass e seminari con la collaborazione di docenti e compositori di fama, il tutto nel tentativo di avvicinare il pubblico a questo repertorio sconfinato colmando una lacuna realmente esistente – in Italia ma non solo – che riguarda la poca considerazione di cui persino tra celebrati addetti ai lavori la musica dei nostri giorni gode nel nostro paese.
Ma veniamo al concerto del nostro ensemble. Sin dapprincipio il gesto giovane ma già sicuro di Leonhard Garms ci accompagna nella creazione dell’edificio sonoro che Sara Caneva, autrice di Dish to Disk, to Dash, ha progettato richiamandosi al «suono di un piatto sollecitato in vari modi». Non abbiamo lo spazio necessario per poter descrivere nel dettaglio ogni singolo brano di un concerto durato complessivamente circa due ore (pausa esclusa) e che ha chiamato il pubblico al non facile compito di ritrovare all’interno di ciascun brano quegli equilibri (e talvolta forse quegli squilibri) presenti nelle rispettive trame compositive, ciò nondimeno nel Quartetto op. 22 dell’unico tra gli autori eseguiti durante la serata a essere da tempo radicato nella tradizione eurocolta, Anton Webern, il cui brano in questione suscitò l’immediato stupore di Alban Berg, che così ne scrisse: «Questo quartetto è un miracolo. Quello che mi colpisce è la sua originalità. Si può dire senza ombra di dubbio che non ci sia niente in tutto il mondo musicale in grado di avvicinarsi a tale livello di originalità».
Certo non si può non rimanere dapprima incuriositi, quindi catturati, dal terzo brano in scaletta, ROOMS del giovane compositore romano Gabriele Rendina Cattani. Cattani ha utilizzato lo strumento elettronico sia come una sorta di tappeto sonoro su cui gli strumenti dell’ensemble ora galleggiano ora dialogano (e dialogano opportunamente, inserendosi negli opportuni interstizi, fugaci brandelli di tempo, rendendo il tutto piuttosto godibile ancorché di non semplicissimo ascolto), sia come strumento solistico vero e proprio dove i membri dell’ensemble ora accompagnano ora fungono da contrappunto rispetto al vero protagonista del brano.
Si cambia decisamente registro con Lady Mcbeth del compositore austriaco Denovaire (classe 1978), che inaugura la seconda parte della serata. Se nei brani precedenti sembrava di assistere alla creazione del suono, in questo brano il suono stesso ci pare presentarsi come soggetto autonomo, in grado di parlarci in modo deciso e diretto, senza necessità di preambolo alcuno. Notevole la combinazione tra le parti scritte e le parti improvvisate e in quest’ultimo caso emerge ancora una volta notevole la capacità, non solo prettamente esecutiva ma anche musicale, dei musicisti dello Schallfeld. Il brano è certo interessante, e disegna un panorama in cui lo sperimentalismo è tutt’altro che finito. Nella nota di sala si legge: «Questo pezzo», spiega il suo autore, «si serve di una matrice quantistica, che duplica le relazioni di numeri interi in tecniche strumentali moderne, producendo texture caotiche. Questa operazione, ispirata dal processo biochimico della trascrittasi inversa, che traduce l’RNA in DNA ed è tipico di alcune cellule virali, trasmuta un modello caratteristico della realtà fisica in una situazione musicale». Ma ciò che conta, spiegazioni bizantine o meno, è che il pezzo funzioni. E funziona.
Il recupero di tematiche e sonorità appartenenti alla musica dei secoli passati (quindi medievale o, come nel caso di cui ci accingiamo a dire, d’epoca rinascimentale) non è certo una novità presso gli autori d’età contemporanea e origina almeno ai tempi in cui nella sua celebre Missa Igor Stravinskij volle richiamarsi a quella purezza propria della cantillatio gregoriana, spogliandola della pomposità delle messe da concerto degli Haydn e dei Mozart. Sarà proprio Stravinskij ad avvertire la necessità di un ritorno allo spirito originario della messa, in un modo che parrà forse a taluni arbitrario, ma che invece indica la sensibilità di un’epoca che non si risolveva negli eccessi e negli umori della Belle Époque. Ad ogni modo, in Tria ex uno per sei strumenti, George Friedrich Haas, tra i maggiori compositori austriaci viventi, riprende il tema dell’Agnus Dei II della Messa l’Homme armé super voces musicales di Josquin Desprez, presentando un lavoro sì di trascrizione ma insieme di adattamento per gli strumenti odierni e soprattutto per la sensibilità contemporanea, vale a dire sfruttando anche il modo in cui questi strumenti vengono oggidì talvolta adoperati in una ricerca del suono inedita; un lavoro che ci ricorda l’ancora recente tentativo di Salvatore Sciarrino, Ivan Fedele, Stefano Gervasoni, Stefano Scodanibbio e Francesco Filidei, i quali hanno rielaborato alcuni brani di autori del Cinque e del Seicento confezionando il tutto per il Quartetto Prometeo, che dal canto suo ha inciso queste rielaborazioni per la Sony in un disco che reca il titolo Arcana.
Non abbiamo lo spazio necessario, si diceva sopra, a occuparci di ogni brano nel dettaglio, ma non possiamo non menzionare, pur brevemente, quello che è stato uno dei brani più attesi in serata, Lagrein per clarinetto, violino, violoncello e pianoforte del quarantenne Johannes Maria Staud, altro austriaco (di Innsbruck questa volta), autore piuttosto noto all’estero e specialmente nel mondo tedesco: il suo Apeiron. Music for Large Orchestra è stato eseguito in prima assoluta nientemeno che dai Berliner Philharmoniker guidati da Simon Rattle. Brano flemmatico, l’atmosfera estatica, contemplativa, vuol essere tuttavia un omaggio al vino Lagrein, vino color rosso ciliegia tipico dell’Alto Adige. La sinestesia ha guidato Staud nella descrizione dell’amata bevanda («il sapore delle sonorità»). Dev’essere un vezzo tutto germanico quello di legare alle proprie creazioni musicali il vino prediletto: quando pubblicò il suo Harmonielehre, Diether de la Motte lo dedicò non, come di prammatica, a un familiare, alla propria moglie, al proprio maestro, bensì «ai vini del Palatinato, con profonda devozione».
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