Al Teatro Municipale allestimento originale per il titolo verdiano. Buona prova per gli interpreti con Leo Nucci, Carlo Colombara, Susanna Branchini
di Ruben Vernazza
Pubblico numerosissimo e applausi convinti per tutti gli artefici dello spettacolo. Questo l’esito del Macbeth di Verdi andato in scena il 18 marzo 2016 al Teatro Municipale di Piacenza. Il dato è di per sé significativo, poiché la sfida era di quelle ardue: sia perché si trattava di un allestimento originale, interamente prodotto dall’istituzione piacentina, sia perché il titolo scelto è un osso duro.
Composto nel 1847 per La Pergola di Firenze e revisionato diciotto anni più tardi per il Théâtre Lyrique di Parigi, Macbeth è una delle opere più innovative e ambiziose di Verdi, e presenta difficoltà non trascurabili di ordine produttivo. Una delle principali riguarda la componente scenica dello spettacolo: i cambi di ambientazione sono numerosi, l’elemento sovrannaturale ricorre in modo costante, la gestione delle masse (che spesso sono chiamate ad occupare la ribalta) non sempre è ovvia. Come Verdi stesso non mancava di rimarcare, quando si monta quest’opera il rischio di scadere in un’eccessiva ricerca di effettismo visivo è sempre dietro l’angolo. Invece di scavalcarlo, lo scenografo Alfredo Troisi aggira tale ostacolo, optando per ambientazioni concise ma di prudente impianto tradizionale, caratterizzate dal predominio delle tinte scure.
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Pochi scalini suddividono il palco in due livelli, e un fondale opaco accoglie l’espandersi di tenui luci colorate (vermiglie, viola, arancioni…) che sembrano voler di volta in volta assegnare, in senso simbolico, una tinta alle diverse situazioni del dramma. L’interno del castello di Macbeth è costituito da una nera parete scorrevole, al cui centro si staglia un rosone dorato a decori intrecciati; le altre ambientazioni sono evocate tramite arredi scenici essenziali (il bosco delle streghe, ad esempio, si limita a un grande albero spoglio e contorto). I costumi di Artemio Cabassi risultano aderenti alle scelte stilistiche dello scenografo: solisti e coro indossano lunghe tuniche cupe e stinte, e maneggiano accessori talvolta fin troppo poveri (più che di metallo prezioso, la corona che cinge il capo di Macbeth sembra cesellata con ritagli d’alluminio). Da par suo, la regìa di Riccardo Canessa punta su un minimale pragmatismo: anche nei momenti in cui il dramma auspicherebbe spettacolarità, i movimenti scenici (specie quelli delle masse corali) sono ridotti, mentre la gestualità degli attori risulta non di rado affettata. A livello scenico, insomma, si sarebbe potuto osare di più, senza comunque rischiare di compromettere l’equilibrio fra il piacere visivo e l’intelligibilità del dramma.
Dal punto di vista musicale, le cose vanno decisamente meglio. Il ruolo di Macbeth è affidato all’inossidabile Leo Nucci: nei primi due atti la sua interpretazione appare quasi trattenuta, ma a partire dal terzo atto i nodi si sciolgono. La voce del celebre baritono acquista in volume e flessibilità, e raggiunge un picco di assoluto coinvolgimento emotivo nelle espansioni liriche dell’aria del quarto atto «Pietà, rispetto, amore». Lo affianca Susanna Branchini, tanto fascinosa quanto luciferina nei panni di Lady Macbeth: la sua voce brunita è capace di flettersi alle impervietà della parte, mantenendosi piena e voluminosa sia nel registro grave che in quello acuto. Oltre che nella scena del sonnambulismo, la sua interpretazione risulta memorabile nel brindisi del secondo atto «Si colmi il calice»: qui si ha davvero l’impressione di sentire quella voce «aspra, soffocata, cupa» che Verdi, in una celebre lettera, dichiarava di desiderare per il ruolo di Lady. Banco è impersonato da Carlo Colombara, che per il timbro corposo e vellutato, la naturalezza dell’emissione e la nobiltà attoriale si conferma uno dei migliori bassi verdiani oggi in circolazione.
I comprimari risultano ben calati nei rispettivi ruoli (convince in particolare il Macduff di Ivan Defabiani), e il coro del Municipale, preparato da Corrado Casati, assolve al suo non facile compito in modo complessivamente efficace. Se la sezione maschile risulta qua e là disomogenea, quella femminile è encomiabile per la capacità di dare credibile sostanza scenica e sonora al coro delle streghe, che Verdi riteneva il terzo protagonista dell’opera. Il direttore Francesco Ivan Ciampa, alla guida dell’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, tiene salde le redini dell’esecuzione: benché dalla sua lettura alcuni dettagli si perdano o risultino talvolta restituiti in modo opaco, l’equilibrio complessivo non manca, e il nerbo sfoggiato negli stacchi e nelle scelte dinamiche contribuisce rendere pregnanti gli snodi del dramma.
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