A Torino, sua città natale, una intensa serie di appuntamenti dedicati al compositore, uomo di grande eleganza, di incredibile sapere e poliedriche capacità
di Luciana Galliano
Il Festival Alfredo Casella. Qualcosa di nuovo accade in città: il brillante direttore artistico del Teatro Regio, Gaston Fournier-Facio, trovando nel programma 2015-16 dalla precedente gestione La donna serpente di Alfredo Casella (Torino 1883 – Roma 1947), è riuscito a muovere le tante istituzioni musicali della città per realizzare in sinergia un festival dedicato a questo compositore torinese, sostanzialmente dimenticato in città e non solo. Ne è venuto fuori un importante portrait, che ha di molto allargato le conoscenze oltre che, ovviamente, della musica di Casella, di tante interessanti articolazioni del mondo musicale e in senso lato intellettuale italiano e internazionale nel mezzo secolo scarso in cui fu attivo il compositore.
Il quale ci ha guardato per giorni con molta intensità dal manifesto del Festival, una riproduzione del ritratto fattogli nel 1926 da Felice Casorati. Era un uomo di grande eleganza, di incredibile sapere e poliedriche capacità; un tratto sorprendente e interessante è, come dice il titolo, la dimensione internazionale di questo musicista che, dall’Italietta di quegli anni, intrattenne rapporti di reciproca stima e amicizia con i maggiori musicisti del tempo; andò a studiare al Conservatoire di Parigi con Gabriel Fauré (compagno di Ravel, di cui fu grande amico), conosceva a memoria intere sinfonie di Mahler, che incontrò diverse volte riscuotendone la stima, era un profondo conoscitore di Stravinsky che frequentò e per la cui musica coltivava una tempestiva passione, e poi Debussy, Hindemith … inutile stilare liste, dalla mostra “Casella Intimo. Immagni di una vita” realizzata da Simone Solinas con le foto di famiglia in possesso della nipote Fiamma Nicolodi (sì, la musicologa che ha scritto il bel libro Musica e musicisti nel ventennio fascista, e che ha fatto una interessante conferenza), si evince come Casella fosse in Europa e in America un musicista riconosciuto e un interprete affermato.
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Ma Casella non fu solo compositore e pianista, fu anche organizzatore e divulgatore entusiasta; fu grazie al suo operato – con la fondazione, fra l’altro, nel 1923 con l’amico Malipiero della Corporazione delle Nuove Musiche – che nell’Italia fascista fu possibile ascoltare musiche contemporanee proibite in Germania, di autori come Prokof’ev, Hindemith, Schönberg, Berg ecc. Casella fu anche competente testimone di novità e scandali musicali, autore di innumerevoli presentazioni e recensioni di concerti (adesso raccolti nel bel volume EdT La musica al tempo dell’aereo e della radio, curato da Francesco Lombardi); scrisse La tecnica dell’orchestra contemporanea, manuale tutt’ora in uso, il primo testo monografico su Strawinskij (ora edito da Saglietti e Satragni per Castelvecchi), una onesta e pudica autobiografia I segreti della Giara, di godibile lettura, a cura di Cesare De Marchi e pubblicata da Il Saggiatore.
La musica e il clima degli anni di Parigi e in particolare del salotto di un’altra allieva di Fauré, Misia Sert, frequentato da Picasso, Verlaine, Mallarmé, Debussy ecc., sono stati illustrati da un bel concerto di molto successo, organizzato per la stagione dell’Unione Musicale. Vi è stato eseguito il lavoro di Casella composto insieme a Ravel per il primo concerto pubblico nel 1994, À la manière de… per pianoforte, in cui i tre “ritratti” scritti da Casella, Fauré, Debussy e Ravel spiccano per l’eleganza e la maturità della scrittura pianistica e per la totale comprensione e assimilazione (direi anche ironica) del linguaggio dei tre compositori francesi (Ravel compose Borodine e Chabrier). L’altro brano, forse unico rimasto nel repertorio dei musicisti da camera, Sicilienne et burlesque per violinol, violoncello e pf, del 1917, costituisce un ottimo esempio dell’italianità avocata da Casella, fatta di “chiarezza e vigoria”, melodie popolari ma anche qualche clash tonale e una dinamica incalzante – forse influenzata anche dal lato più gentile del futurismo. Bravi gli interpreti, il Trio Debussy e il pianista del trio Antonio Valentino. Peraltro la Sicilienne mi è piaciuta di più in un’altra esecuzione, forse meno distillata e sapiente ma più brillante, della giovane Giorgia Delorenzi con Giuseppe Locatto, violinista e Amedeo Fenoglio, violoncellista, per il concerto cameristico della De Sono, in cui il brano è stato abbinato a due delle tante trascrizioni-rielaborazioni di Casella, da Muzio Clementi e da G.B. Sammartini, anche in questo caso iniziando pionieristicamente la riscoperta del grande repertorio italiano sette-ottocentesco.
Casella nel 1915 torna in Italia, appare per molti versi l’unico compositore italiano veramente impegnato ad educare una nuova generazione di musicisti moderni, in una cornice internazionale che va dall’atonalità al (neo)classicismo (Casella non amava definirlo “neo”) e di cui farà parte anche il jazz (Casella fu direttore della Boston Pops Orchestra, filiazione della BSO, e anche se la trattò come una regolare orchestra sinfonica, pure non ne disconobbe il carattere leggero e popolare). Si stabilisce a Roma ma continua a frequentare una Torino in cui il dibattito intellettuale era alto – intorno a Casorati c’era il giovane Bobbio, Piero Gobetti, aleggiava addirittura lo spirito di Bloomsbury – Dafne, la moglie di Casorati, era nipote di Saumerset Maugham.
Delle tre opere di Casella due sono state eseguite in prima assoluta a Torino: La favola di Orfeo e La donna serpente.
La donna serpente, prodotta dal Teatro Regio insieme al Festival della Valle d’Itria, è il primo lavoro operistico, composto alla fine degli anni Venti sulla favola di Carlo Gozzi per il libretto di Cesare Vico Lodovici; nel reciso rifiuto caselliano di qualunque afflato verista o wagneriano, è un’opera davvero interessante. Va detto che non avrebbe potuto trovare resa scenica più brillante: la regia di Arturo Cirillo, con le scene di Dario Gessati e i costumi di Gianluca Falaschi, crea un mondo astratto e vagamente imparentato con i bozzetti del Fortunato futurista Depero, coloratissimo e però scarno, composto com’è l’allestimento solo di pochi grandi elementi plastici su cui si arrampicano e rotolano i vari personaggi – re, fate, principi, mostri… il tutto davvero brillante e pieno d’inventiva. Su cui la musica sembrava calzare a fatica: lunghe e difficili linee vocali contrapposte alla perentorietà delle formule del coro, impasti strumentali raffinati ma poco chiari… Se posso ragionare liberamente, a mio parere l’equivoco è stato nella scelta interpretativa del direttore Gianandrea Noseda (peraltro generoso interprete caselliano: ha appena inciso le tre Sinfonie), che nell’incontro di presentazione ha detto che la musica della Donna serpente gli sovviene quella di Nino Rota… ove sembrerebbe invece auspicabile la nervosa secchezza di uno Stravinsky, peraltro modello indiscusso di Casella, che avrebbe messo a punto le varie (apparse un po’ molli) concitazioni ritmiche e orchestrali, le parti vocali insieme alle strumentali, la leggerezza di un testo forse sillabicamente contorto ma facilmente passibile di quell’effetto macchinico e irresistibile presente in un altro grande lavoro da Gozzi, L’amore delle tre melarance di Prokof’ev, un’opera del 1921 sicuramente nota a Casella. L’opera è comunque piaciuta ed è stata applaudita, con le regolari chiamate dei cantanti. Bravissimi tutti, e voglio citare in un supercast di oltre 15 personaggi, almeno i protagonisti: il soprano Carmela Remigio nella parte di Miranda, il tenore Piero Pretti come re di Teflis, il soprano Francesca Sassu come fata Farzana e i tre ministri, parti comiche, nelle persone del tenore Fabrizio Paesano, il baritono Donato di Gioia e il basso Fabrizio Beggi. L’Orchestra del Regio ha suonato benissimo nel concerto del 23, in cui sono stati eseguiti i Pupazzetti sotto la direzione del bravo Fabio Luisi.
Di tutt’altra dimensione e clima, pur se altrettanto astratta, La favola di Orfeo del 1932, composta sull’adattamento di Corrado Pavolini da Poliziano; si tratta di una garbata operina da camera in un atto (nemmeno un’ora di durata) con ampie linee vocali volutamente riprese dal repertorio seicentesco, ma incastonate nei viluppi strumentali e ritmici del compositore. Se nella Donna Serpente Casella sembra volutamente tentare una drammaturgia non consequenziale, in una sequenza di scene e quadri autonomi senza un arco di tensione dall’inizio alla fine, nella Favola c’è una curva drammaturgica ben percepibile, con acme non alla morte di Euridice, ma alla sua definitiva scomparsa nell’Ade. Nella realizzazione della storica associazione torinese Stefano Tempia, il coro diretto da Dario Tabbia e l’orchestra da Silvio Gasparella hanno accompagnato Dario Prola tenore, Devis Longo baritono, Mariasole Mainini e Kate Fruchterman soprani e il basso Xiaoyu Ran – tutti bravi, forse meglio le parti maschili. Grandi applausi.
Non posso concludere questo pur parziale referat sul Festival Casella (non tutto ho potuto seguire) senza dire com’è stato entusiasmante l’allestimento della Donna Serpente nell’originale di Gozzi da parte degli allievi del TST, e due parole sul Convegno “Il tempo e la musica di Alfredo Casella”, a cura del Teatro Regio e con la partecipazione di Giorgio Pestelli, Giangiorgio Satragni, Marco Vallora, Nicola Montenez, Virgilio Bernardoni, Francesco Fontanelli e Antonio Rostagno: una giornata di autorevoli contributi in cui un tema centrale è stato, accanto alla presenza internazionale del musicista (Satragni e Vallora), prevedibilmente la sua adesione al fascismo, dalla prima ora nel 1923 (Montenez). Certo la sua fu una attiva partecipazione alla cultura di regime, anche se ridurre Casella a famulo del regime sarebbe falso: lui non diffuse il monolitico messaggio fascista ma fu piuttosto politeistico, e la complessità della sua adesione al fascismo emerge da accenni episodici anche nella autobiografia. Forse ritrovò nel miraggio d’ordine del fascismo il proprio progetto artistico, lo stile classico e non “neo”; nel corso di una polemica Adorno reagì citando il principio secondo cui “canto chi mi da il pane”. Resta però una evidente contraddizione fra l’apertura espressa nei saggi, l’attività e il sospetto reazionario di certe affermazioni. Molto verosimilmente si trattò di un tatticismo – Nicolodi l’ha definito “cerchiobottista”, e forse l’amarezza di un artista così intelligente all’orrore dei tempi si espresse nell’ultima opera, la Missa solemnis “Pro Pace”, in cui lui, malato, in tempi tragici recupera la storia senza dirsi credente, in una inedita continuità e ripresa melodica, il melange linguistico retto da chiarezza e ordine gregoriano (Rostagno). L’esecuzione della Missa è rimandata ad una prossima occasione in cui Torino si ricorderà di questo suo compositore così innovativo, raffinato e, sinora, trascurato.
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