Opera in un atto, tratta da uno scritto di Yukio Mishima, ripresa dal compositore romano dopo la prima esecuzione del 1994. Ensemble Roma Sinfonietta diretto da Carlo Boccadoro
di Alexandros Maria Hatziriakos
IL TEATRO nō, secondo solo alle stampe di Hiroshige e Hokusai, è la forma artistica giapponese che più ha affascinato e influenzato il Novecento occidentale. Da Yeats, a Pound, a Britten fino a Bob Wilson, la forma più nobile del teatro nipponico ha ispirato un rinnovamento radicale nel teatro musicale e di prosa. Marcello Panni, nel ritornare sul suo Hanjo, opera in un atto, tratta da un nō di Yukio Mishima, mostra come il fascino di quest’arte sia ancora oggi lontano dall’esaurirsi. La prima esecuzione di Hanjo, rappresentata alla Pergola di Firenze nel 1994 con regia di Bob Wilson, in occasione del Maggio Fiorentino, prevedeva l’impiego di un grande organico orchestrale. Dopo ventidue anni Panni ha ripensato la sua opera, riducendo l’organico strumentale a soli sei esecutori e l’ha proposta in prima assoluta all’Auditorium “Ennio Morricone” di Tor Vergata.
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Questa contrazione della massa sonora va esplicitamente incontro all’essenzialità tipica del linguaggio del teatro nō. Nella riduzione cameristica, inoltre, risulta dominante la presenza delle percussioni e dei fiati, tipologie di strumenti proprie della musica che accompagna gli attori teatro giapponese. Pur non essendo un’opera vera e proprio, il nō prevede l’accompagnamento di musiche e inserti cantati, caratterizzati da una vocalità statica e ripetitiva. È proprio la scrittura vocale utilizzata da Panni per Hanjo, rimasta invariata nella nuova versione, l’elemento che più di tutti l’accumuna all’espressività marmorea del nō. Ad un primo ascolto il ritmo delle parole e la sonorità della lingua italiana sembrano quasi forzate in un cantare fermo, costretto tra un quasi-declamato e un melodiare a linee spezzate. La parola è apparentemente spogliata del suo potere drammatico, l’espressività delle voci è congelata. Siamo lontanissimi da ciò che normalmente pensiamo come teatro musicale, lontani anni luce perfino dalle austere church parables britteniane.
Nulla, credo, è tuttavia casuale, e l’immobilità vocale corre parallela alla rinuncia totale della mimica facciale a cui gli attori del nō tradizionale sono costretti dalle grandi maschere che portano in scena. Soprattutto nella sua nuova veste cameristica, Hanjo è forse l’opera occidentale più vicina all’estetica del teatro d’arte giapponese, più tradizionale forse di Mishima stesso.
Nel penultimo dei suoi Cinque nō moderni, Mishima ristruttura la trama di uno dei più noti nō giapponesi, costruito intorno alla storia di una giovane geisha che attende il ritorno del proprio amante. Nella versione di Mishima, il ritorno dell’amato non viene riconosciuto dalla geisha Hanako, che lo respinge preferendo vivere il resto della vita in eterna attesa. Nella storia è aggiunta inoltre la figura della pittrice Jitsuko, disperatamente innamorata di Hanako. La modernità del tema, l’attesa non risolta, molto caro al Novecento occidentale, è sicuramente l’elemento di principale attrazione di Panni verso questo specifico testo di Mishima, e trova un riscontro forte nei movimenti statici e alteri del nō tradizionale. La musica di Panni non asseconda solo l’immobilità esteriore del nō tradizionale ma traduce in suono la condizione esistenziale dei protagonisti di questo atto unico.
La texture della parte strumentale è invece estremamente dinamica e ricca di complessità timbrica. Una musica tutt’altro che immobile, affrontata in maniera eccellente dall’Ensemble Roma Sinfonietta, sotto la guida di un grande esperto di questo repertorio come Carlo Boccadoro. Un ottimo risultato anche sul coté vocale: è riuscito grande efficacia il personaggio di Hanako, interpretato dalla giovane Sabrina Cortese, nonché la parte di Yoshio, amante di Hanako, eseguita da Antonio Pirrozzi. Particolare merito va inoltre a Sabrina Cortese, che ha retto il difficile ruolo della pittrice Jitsuko, forse il più complesso vocalmente.
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