Il violoncellista e la Camerata Zürich hanno interpretato a Torino anche pagine di Šostakovič e dello svizzero Othmar Schoeck
di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
La sera di martedì 5 aprile per il cartellone dell’Associazione Lingotto Musica il pubblico torinese ha potuto ascoltare la Camerata Zürich: ospite di lusso il violoncellista (bernese) Thomas Demenga che ha interpretato di Schumann il Concerto op. 129. E ne ha colto assai bene il lirismo melanconico, solipsistico, spècie del primo movimento, innervato di accensioni e strïato di inquietudine. Demenga ha un suono bellissimo, caldo ed effusivo, fraseggia con gusto e raffinatezza indicibili, raccoglie ogni spunto offerto dai trasalimenti che predominano nella zona centrale, dove i fiati della Camerata si impongono per precisione e rotondità di suono. Poi la tenerezza affettuosa della sezione mediana impregnata di spirito Biedermeier in cui la sintonia tra solista e cameristi è parsa notevole, infine la spigliata animazione dell’ultimo episodio che, si sa, interviene senza soluzione di continuità. Ben più di altre volte sono emerse quelle curiose assonanze con la mendelssohniana Sinfonia ‘Scozzese’ (certo evidenziate dalla tonalità di la minore), entro un pagina che sfocia infine in un’ampia cadenza, affrontata da Demenga con somma sicurezza e souplesse. Quella stessa souplesse che ha sfoderato nei due bis bachiani d’ordinanza (Allemanda e Bourrée dalla Terza Suite in do maggiore BWV 1009), confermandosi artista completo, dalla compostezza classica, lontano dai gigionismi appariscenti di altri ‘colleghi’, con insolite capacità di introspezione. Nel finale di Schumann, invero, non tutto era in asse con l’orchestra, nonostante il prodigarsi del primo violino, in veste di Konzertmeister. Sarà per questo che Demenga alla fine anziché complimentarsi con lui ha stretto la mano al primo violoncello? O forse era per solidarietà tra cellisti?
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In apertura di serata s’era ascoltato dello svizzero Othmar Schoeck il poco noto Sommernacht, Intermezzo pastorale per archi op. 58 (ispirato ad una poesia di Gottfried Keller che allude all’arcaica a tradizione di falciare il grano durante le notti stellate a favore di orfane e vedove). Si tratta di pagina gradevole quanto innocua, dalle atmosfere rarefatte, improntate a una eleganza un poco manierata. Pur essendo stata composta nel 1945, si rivela attardata su posizioni tardo romantiche, con vistosi echi mahleriani (assai meno brahmsiani), vaghe assonanze francesi e moderate aperture verso orizzonti neoclassici (lo Stravinskij dell’Apollon Musagète, meditato pur con guardinga cautela). Si fa palpitante nella parte centrale; nel suo eclettismo un poco frale (non immemore degli studi di contrappunto con l’austero e ben più greve Reger) permette di apprezzare la qualità timbrica dei cameristi zurighesi, abili nel dar corpo alle molte nuances e così pure di inebriarsi per quei frammenti melodici estenuati che qua e là emergono dal tessuto sonoro, vaga eco (ma sempre con estrema cautela) di Verklärte Nacht. Il Sommernacht termina con sonorità dolcissime e incorporee, ma – occorre ammetterlo con franchezza – non si prova alcun desiderio di riascoltarlo.
Non così nel caso della superba Sinfonia da camera op.73a del sommo Šostakovič. Che poi altro non è che la rielaborazione per orchestra da camera del Terzo Quartetto ad opera di Rudolph Barshai (datato 1946). Un anno solo separa dunque la pagina dal Sommernacht dell’anodino Schoeck, ma che abisso. I cameristi zurighesi ne pongono in luce al meglio le caratteristiche stilistico-espressive. E allora i climi graffianti, ironici dello smagato e agrodolce Allegretto, così idiomatico, poi la beffarda e scarnita bellezza del Moderato con moto con quei tratti in punta d’arco; la sinistra e ruvida esasperazione timbrica dell’esacerbato Allegro non troppo; e ancora, la lugubre desolazione dell’Adagio col fagotto che pare delineare spazi caucasici, ma stenta a decollare, da ultimo le screziate atmosfere del vasto Moderato finale, dai climi ossessivi e disperanti, fin dallo pseudo fugato che lo inaugura. Vi predomina una cupa tetraggine, giù giù sino all’enigmatico epilogo, misterioso come un protendersi sul vuoto. Epilogo in cui dovrebbe risuonare il gocciolio dell’arpa, citata ben due volte nel programma di sala (dacché Barshai la prevede effettivamente in organico accanto a flauto, oboe, corno inglese, clarinetto e fagotto), ma inesistente nell’esecuzione torinese, chissà perché. Peccato avervi rinunciato, dacché aggiunge un tocco di colore e la sua presenza – ascoltare per credere – non è del tutto pleonastica o esornativa. Applausi convinti da parte di una platea colpevolmente meno folta del solito. Ma si sa, il pubblico vuole la grande formazione e ama ascoltare e soprattutto riascoltare all’infinito solamente ciò che già conosce bene, si da uscirne rassicurato: a prevalere purtroppo è sempre la pigrizia atavica.
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