Nuovo allestimento in scena al Palau de les Arts con la direzione di Fabio Biondi e la regìa di Livermore: una commistione di stili e stimoli visivi
di Alberto Bosco foto © Tato Baeza
Nel suo nuovo allestimento dell’Idomeneo, andato in scena al Palau de les Arts di Valencia, Davide Livermore sembra aver voluto sviluppare un’intuizione critica che già Massimo Mila aveva avuto tanti anni fa, ossia quella dell’importanza del mare, personaggio onnipresente in quest’opera, quasi che Mozart avesse anticipato la ricerca romantica del colore locale in un’opera seria ancora settecentesca. Così dall’inizio alla fine gli alti e bassi del dramma sono accompagnati da proiezioni video sullo sfondo molto suggestive e di grande effetto. Il problema è che tendono a saturare l’attenzione, per esempio distogliendo dalla musica durante l’ouverture e facendo passare in sordina anche quei momenti nell’accompagnamento orchestrale che effettivamente hanno suggestioni marine.
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La vicenda è immaginata in un mondo di fantascienza, con Idomeneo che ritorna dallo spazio dopo una guerra nucleare e il vendicativo dio Nettuno raffigurato da un pianeta infuocato che incombe minaccioso sui destini degli uomini. Questo permette a Livermore di accentuare l’aspetto mitico e atemporale della vicenda, al centro della quale egli vede il rapporto padre-figlio (interiorizzato nel dilacerante conflitto di Idomeneo), più che la storia d’amore tra Ilia e Idamante, e allo stesso tempo gli dà la possibilità di mettere in luce il suo talento visivo, con effetti scenici molto pregevoli in grado di inquadrare i personaggi in un iperuranico mondo senza aggettivi e così simboleggiare l’eternamente umano che è alla radice della teoria degli affetti nell’opera seria.
Parallelamente a questo, la regìa però aggiunge altri livelli, in una commistione di stili e stimoli visivi che può essere discutibile: ci sono allusioni all’attualità, nei costumi e nei riferimenti alle guerre e all’ONU, c’è un livello per così dire psicanalitico, con sdoppiamenti di personaggi e scene oniriche, e c’è una recitazione che punta all’immediatezza e a una gestualità piuttosto movimentata. Il risultato eterogeneo e sovrabbondante, va a discapito della maestosità dell’Idomeneo, una maestosità che il giovane Mozart, grazie alla scrittura sinfonica, all’importanza riservata ai cori e a un certo avvicinamento al modello gluckiano, aveva perseguito in questo suo capolavoro giovanile, e senza la quale il lirismo delle scene d’amore perde un importante elemento di contrasto.
Un analogo discorso potrebbe farsi per la direzione di Fabio Biondi, giustamente preoccupata di esaltare la ricchezza drammatica dei recitativi accompagnati (molto estesi e lavorati), ma che così facendo ha dimenticato le stasi liriche delle arie, vera ragion d’essere dell’opera seria. L’incalzare del ritmo drammaturgico, i tempi rapidi e una concertazione attenta a piccoli dettagli ma carente di respiro teatrale e unitario, hanno fatto un po’ perdere per strada non solo la grandiosità di cui si diceva prima, ma anche quella caratteristica rotondità timbrica e la ricchezza di colori orchestrali con cui Mozart, in omaggio ai suoi vecchi amici dell’orchestra di Mannheim che suonavano nel teatro di Monaco, ha voluto caratterizzare questa partitura.
Può essere che Biondi abbia puntato più sulla vivacità che sull’estasi lirica, per venire incontro ai limiti delle voci che aveva a disposizione, in particolare per l’Ilia di Lina Mendes, corretta ma non convincente, e per l’Idamante di Monica Bacelli, viziato da un’emissione poco timbrata. In generale le arie turbolente di Elettra hanno funzionato meglio, e questo nonostante la vocalità un po’ sguaiata e le smanie eccessive di Carmen Romeu. Per chiarezza di dizione e fraseggio, troneggiava su tutti la figura di Gregory Kunde: nel suo Idomeneo regale e dilaniato, è sembrato a tratti di ascoltare il suo Otello, ma a parte qualche forzatura, è sulle sue spalle che bene o male si è retto lo spettacolo.
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