di Luca Chierici
Era da tempo che non si ascoltava Francesco Libetta come protagonista di un lungo e composito recital che ricordava i fasti degli anni ’90, in una Milano da bere elettrizzata per la sua proposta degli Studi di Chopin-Godowsky o di certo Alkan, sempre per le Serate Musicali. Le sale erano molto più piene di quanto non lo siano oggi, il che vuol dire che qualcosa non funziona nell’organizzazione e nella fruizione dei concerti di musica “colta”. Oppure possiamo avanzare l’ipotesi secondo la quale il fenomeno sia anche colpa del marketing, che crea interessi mirati e che impoverisce le scelte personali degli spettatori: non si va più ai concerti come frutto di una ricerca in proprio sul repertorio e sulla validità effettiva degli artisti, bensì grazie ai suggerimenti che provengono da una campagna pubblicitaria ben congegnata o da una conferenza stampa che punta sul sensazionale.
Libetta è da un certo punto di vista molto cambiato negli anni e la sua straordinaria manualità, oggi al servizio completo della musica, si è fatta più granitica (con un evidente vantaggio sulla qualità del suono) e accompagna scelte sempre molto mirate e anticonvenzionali. L’impaginato del programma poteva essere letto, ad esempio, come percorso di continuità tra gli autori considerati: Haendel, rappresentato da una Suite breve ma affascinante, era compositore amatissimo da Beethoven, del quale si è ascoltata la Sonata op. 90, e trascritto anche da Czerny; quest’ultimo compariva con una scelta di Studi dall’opera 740 ed era stato a propria volta allievo di Beethoven e poi maestro di Liszt, presente attraverso un’ampio spettro di trascrizioni e pezzi originali.
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