Sapiente lettura di Zubin Mehta circondato da un compagnia di canto di alto livello in cui si sono distinti Krassimira Stoyanova, Günther Groissböck, Christiane Karg, Adrian Eröd
di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Con una ripresa dello spettacolo andato in scena al Festival di Salisburgo un paio di anni fa, Il Rosenkavalier è ritornato alla Scala dopo cinque anni di assenza: un successo unanime di pubblico e numerose chiamate alla ribalta per il cast vocale e soprattutto per Zubin Mehta hanno visto ancora una volta trionfare un titolo che non è mai uscito dal repertorio di un Teatro nel quale in passato si sono avute almeno due produzioni entrate nella leggenda sotto la direzione di Karajan e Carlos Kleiber e con cantanti di assoluta grandezza.
È più attraverso il Rosenkavalier che nel ricordo delle iconoclaste partiture di Salome ed Elektra che Richard Strauss prosegue il suo lungo cammino verso gli ultimi diafani lavori teatrali rivolti al ricordo di un classicismo tanto lontano dall’amara realtà degli anni attorno alla seconda guerra mondiale. L’affettuosa e sapiente lettura di Mehta, giunto quasi alle soglie di età dell’amato Richard, è stata condotta con una scelta di tempi spesso più moderati rispetto a quelle di altri colleghi famosi che lo hanno preceduto ma allo stesso tempo è riuscita a sottolineare mille dettagli che hanno ricordato ad esempio quante e quali affinità vi siano tra i momenti memorabili dell’opera e molti luoghi futuri della produzione del musicista. Basti pensare alle evidenti somiglianze tra la strumentazione dello screziato tema della Rosa argentea e quello della trasfigurazione arborea di Daphne, entrambi espressi attraverso un prezioso disegno al registro acuto degli archi, o a certi momenti anticipatori dell’estenuata liricità dei Vier letzte Lieder.
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