di Luca Chierici
La presenza di Saverio Mercadante a Madrid nel 1826 e nel 1830, pure all’insegna di non pochi intrighi che resero non facile l’attività del compositore, da poco arruolato come organizzatore delle stagioni liriche in due teatri della città, diede come risultato la creazione di due nuovi titoli. I due Figaro (1826), opera andata in scena a Madrid solamente nel 1835 è stata riesumata in tempi moderni attraverso la curiosità e l’impegno di Paolo Cascio che ha avuto per primo il merito di richiamare su quest’opera l’attenzione degli specialisti e di rendere possibile una esecuzione prestigiosa di Riccardo Muti al Festival di Salisburgo. Francesca da Rimini (1830-1831) conobbe addirittura l’onta di una mancata prima rappresentazione e su questo titolo lo stesso Cascio scrisse una tesi di laurea, comprendente la stesura in grafia moderna dell’intera partitura, tesi discussa nel gennaio del 2014 presso l’Universidad Complutense della capitale spagnola e documento reperibile sulla rete e da tutti consultabile nella sua integrità, tranne che per una scelta solamente parziale della partitura stessa, per ovvi motivi di copyright. Cascio si era avvalso di una copia manoscritta dell’opera presente in una biblioteca madrilena, mentre l’autografo originale della Francesca è conservato a Bologna. Per questa importante prima esecuzione mondiale, la direzione artistica del Festival della Valle d’Itria ha ritenuto opportuno avvalersi della collaborazione della studiosa Elisabetta Pasquini, che aveva lavorato parallelamente a Cascio sull’opera di Mercadante in vista della pubblicazione di una edizione critica che è stata effettivamente edita dalla UT Orpheus nel 2015.
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Supponiamo che la Pasquini abbia messo a confronto le due copie dello spartito, ossia quella di Madrid e quella di Bologna. In ogni caso un lavoro comune da parte dei due studiosi, incoraggiato dalla casa editrice più che dal Festival, non avrebbe potuto che giovare all’impresa. Chiudiamo qui la questione, anche se viene spontaneo osservare come in un paese dove non ci si riesce a mettere d’accordo su un’opera inedita di un compositore non proprio noto a tutti è difficile che si possano dirimere di comune accordo politico questioni più terra terra ma ben più vitali per la sopravvivenza della comunità.
Il Festival della Valle d’Itria non era certo nuovo a proposte più che interessanti che ruotavano attorno al nome di Mercadante, musicista nativo di Altamura che sviluppò la propria carriera secondo un percorso per quei tempi “internazionale” e che si collocò nell’angusto spazio lasciato da figure gigantesche come quella di Rossini (1792-1868), Bellini (1801-1835) , Donizetti (1797-1848) e Verdi (1813-1901). Mercadante, vissuto tra il 1795 e il 1870, conobbe una vasta popolarità soprattutto nel periodo che va dal 1825 al 1850, inserendosi dunque in un periodo storico molto critico per il melodramma italiano. L’occasione di ascoltare un’opera come la Francesca da Rimini, mai rappresentata, era un motivo più unico che raro per valutare lo stato di salute dell’opera italiana a quella data (1830) e soprattutto per conoscere a quale livello di maturazione era pervenuto il linguaggio di Mercadante in un periodo antecedente a quello in cui nasceranno lavori più noti e caratteristici come Il Bravo (1839) e Il Giuramento (1837).
Le sorprese in tal senso non sono mancate, pur riconducendosi spesso la musica di questa Francesca agli stilemi del migliore Rossini serio. Un certo sbilanciamento tra il lungo primo atto (quasi due ore di musica) e il secondo era facilmente avvertibile. Nel primo caso ci si trova di fronte a un complesso impianto di stampo rossiniano, perfettamente calibrato nel rispetto di una drammaturgia consolidata. Nel secondo atto, più debole dal punto di vista teatrale, si ascoltavano invece momenti più originali che facevano dimenticare i modelli risalenti a una quindicina di anni prima e mostravano la vena più autentica del linguaggio di Mercadante, soprattutto dal punto di vista strumentale. Rimandiamo il lettore al testo della Pasquini inserito nel programma di sala del Festival, che ricalca quello pubblicato nell’edizione critica, per venire a capo di un complesso intreccio di fatti che sono alla base del vero e proprio “caso” nato attorno a quest’opera. Per chiarire quali siano gli antecedenti musicali della Francesca da Rimini si parte infatti dai titoli rossiniani rappresentati a Madrid tra il 1826 e il 1831. L’ipotesi relativa alla successiva mancata rappresentazione madrilena dell’opera porta a considerare il clima ostile a Mercadante creato dalla sua amante, la primadonna Adelaide Tosi, in realtà non più in grado di sostenere il ruolo del titolo in programma. Infine il fallimento del progetto di una prima scaligera della Francesca da Rimini nella stagione 1831-1832 ruoterebbe, secondo la Pasquini, attorno alla presenza milanese della Pasta e al suo rifiuto nell’impegnarsi nel ruolo di Paolo a fianco di una Francesca retta dalla più giovane e meno esperta Giulia Grisi, con la quale la primadonna avrebbe dovuto comunque condividere il successo.
Tali premesse sono necessarie per capire quanti e quali problemi siano stati alla base delle rappresentazioni di siffatte opere in anni oramai lontani. E quanti problemi vi siano tuttora nel recupero dei testi musicali, dello stesso libretto di Romani che non conobbe la fortuna di un’edizione a stampa, per non parlare della ricerca di voci adatte all’impervio compito. In compenso a Martina Franca si vivono oggi forti emozioni che ci riportano a tempi remoti, soprattutto quando, come in questo caso, ci si trova di fronte a una prima esecuzione assoluta. Esecuzione che ha registrato un successo notevole grazie all’impegno di una compagnia di alto livello guidata con precisione da un concertatore esperto come Fabio Luisi. I ruoli di Lanciotto, Paolo e Francesca esibiscono grandi difficoltà tipiche delle convenzioni canore dell’epoca e sono stati affrontati con valore da cantanti giovani e incuranti del rischio, strenuamente appassionati alla sfida che si trovavano innanzi. Giulia De Blasis, sostituendo l’ammalata Leonor Bonilla, ha dato prova non solo di coraggio ma di capacità nel restituire il complesso ruolo di Francesca. Aya Wakizono, Paolo Malatesta, si è ancor di più spesa attraverso una capacità interpretativa che trascendeva le pur non indifferenti richieste tecniche della vocalità del personaggio. Mert Süngü ha giocato le proprie carte forse più sul piano strettamente vocale, ma i virtuosismi della parte di Lanciotto erano essi stessi necessari in grande misura anche alla definizione drammatica del ruolo. Di valore tutti gli altri protagonisti, in particolare il Guido da Polenta di Antonio Di Matteo.
La regìa, le scene e i costumi vedevano la rinnovata presenza al Festival di Pierluigi Pizzi, che da tempo aveva confessato di non volere riproporre per questa Francesca da Rimini il fasto di produzioni passate che tanto lo avevano reso famoso. I colori diversi scelti per i protagonisti, il nero incombente di veli che nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca trovavano nelle correnti d’aria naturali il motore per il loro moto perpetuo, la passerella frontale che sfruttava una non certo nuova caratteristica che permette la presenza di protagonisti a stretto contatto con le prime file del pubblico erano tutti motivi sulla carta semplicissimi per confezionare uno spettacolo in linea con l’eccezionalità dell’evento. Di minor pregio ci sono sembrate le coreografie di Gheorghe Iancu, che potevano meglio sfruttare l’abilità dei danzatori (in primis Letizia Giuliani e Francesco Marzola) e potevano intervenire con maggiore inventiva nel contesto dell’opera.
Come si conviene ai melodrammi seri dell’età d’oro del belcanto, la Francesca da Rimini di Felice Romani tratta dal dramma di Silvio Pellico non aveva certo la concisione dei pochi, folgoranti versi danteschi del quinto Canto dell’Inferno. Lo spettacolo è terminato quindi a notte inoltrata, come d’uso nelle grandi serate del Festival.
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