di Cesare Galla foto © Studio Amati Bacciardi
QUINDICI ANNI FA, l’ultima volta che La donna del lago era sta rappresentata al Rossini Opera Festival di Pesaro (regìa di Luca Ronconi, direttore Daniele Gatti), il programma di sala proponeva una puntigliosa cronologia delle rappresentazioni curata dal compianto Giorgio Gualerzi, storico della vocalità scomparso poche settimane fa. In quell’elenco si potevano seguire le vicende esecutive di un melodramma riapparso sulle scene dopo lungo oblio solo nel 1958 al Maggio Musicale Fiorentino, in una riesumazione poi largamente biasimata perché mutila, affidata al venerabile Tullio Serafin. E quindi proposto, fino al 1992, non più di una ventina di volte, di qua e di là dell’Oceano. Gualerzi aveva intitolato la sua analisi “Un’opera da riprendere (non solo a Pesaro)”, ma già il suo regesto, che segnalava un vuoto di rappresentazioni dal 1992 al 2001, testimoniava la cautela con cui La donna del lago trovava ospitalità sulle scene internazionali. In occasione della nuova edizione firmata da Damiano Michieletto, spettacolo inaugurale del ROF 2016, il completamento di quell’elenco con i primi quindici anni del nuovo secolo, purtroppo mancante nel programma, sarebbe stato prezioso per capire se quell’auspicio si sia realizzato, oltre le recenti rappresentazioni londinesi e americane (al Metropolitan di New York, nel febbraio 2015, si è trattato della prima assoluta).
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Il problema della Donna del lago non consiste soltanto nella difficoltà di rispondere con interpreti adeguati all’ardua scrittura vocale del compositore, cosa nella quale, del resto, da sempre la rassegna pesarese è maestra. Esso riguarda più in generale la complessità sfuggente di un melodramma cui la storia assegna d’ufficio il titolo di “quasi capolavoro”, ma che finora a Pesaro, non ha ancora trovato – accanto a straordinarie personalità interpretative – il segno registico rivelatore, capace di determinare il “lancio” di quest’opera non si dice verso il repertorio, ma almeno verso una considerazione meno astratta, per quanto positiva. Non ci sentiamo di dire che ciò accada con la regìa di Michieletto, proprio come la scintilla non si era accesa nel 2001, quando Ronconi aveva firmato uno spettacolo tutto sommato minore, del quale la memoria si va inevitabilmente stingendo. Quanto all’unica altra presenza del titolo al festival, quella del lontano 1981 (ripresa nel 1983), essa è ricordata più per la presenza sul podio (rimasta isolata) del pianista Maurizio Pollini che per l’allestimento firmato dall’architetto Gae Aulenti.
Lo spettacolo ideato da Michieletto (con la collaborazione come sempre decisiva del suo scenografo di fiducia, Paolo Fantin, e del costumista Klaus Bruns) è complesso fino al punto di diventare macchinoso, anche se sicuramente motivato, almeno in linea di principio, dalla complessità psicologica che ha fatto dire a uno dei maggiori studiosi rossiniani, Giovanni Carli Ballola, che La donna del lago tratta dell’utopia della felicità. La geometria sentimentale egregiamente disegnata dai versi di Andrea Leone Tottola (a partire dal poema di Walter Scott) e rivestita da Rossini di una invenzione musicale di straordinaria e quasi filosofica astrazione, prima del lieto fine disegna infatti a lungo i soprassalti, le debolezze e le irresolutezze sentimentali della protagonista, posta al centro di una geometria sentimentale nella quale si trova ad essere desiderata da chi suo malgrado desidera, pur essendo innamorata di un altro e destinata dal padre a un altro ancora.
Michieletto tenta di interpretare questa complessità portando sulla scena, fin dal primo momento, i due innamorati Elena e Malcom, mostrati però in un’età di molti decenni successiva ai fatti (parti attoriali, naturalmente: si tratta di Giusi Merli e Alessandro Baldinotti), come anziani coniugi. Essi – soprattutto lei – non solo ricostruiscono nella memoria gli eventi fondativi della loro unione, ma quasi li generano in una sorta di proiezione autoanalitica, partecipando all’azione come presenze fantasmatiche eppure fin troppo attive, perfino invasive, in una costante controscena che finisce per appesantire notevolmente lo spettacolo. La ricostruzione mentale avviene, anzi crea, l’interno di un opprimente palazzo in disfacimento, dai muri scrostati, dai vetri alla finestre tutti rotti, con scale traballanti che portano a un piano superiore il cui pavimento è sfondato. Le erbacce e perfino l’acqua di un vicino stagno stanno prendendo possesso del salone. Un più deciso elemento naturale – nonostante la sua centralità nel testo, sia letterario che musicale – appare solo nell’ultima parte, ma si tratta di un canneto che nulla ha a che fare con le foreste, le montagne e gli specchi d’acqua della Scozia. L’impressione finisce per essere quella di un eccesso di elucubrazione, di una sofisticatezza fredda e vagamente presuntuosa che carica lo spettacolo di gesti, significati, particolari che è impossibile seguire in dettaglio e alla fine distraggono e stancano, a detrimento delle gemme musicali che incastonano la partitura e nei momenti migliori creano un clima espressivo originalissimo ed emozionante.
Se l’attesa di un’edizione “rivelatoria” della Donna del lago sul piano registico è andata delusa (alla fine successo solo di stima – come si diceva una volta – per il regista veneziano e il suo staff), ben diverso il discorso per quanto riguarda il versante musicale. Sul podio c’era Michele Mariotti, specialista della Donna del lago, che ha diretto con grande successo anche a Londra e New York. Nella sua lettura, equilibrato e intenso risalto per le molte sfumature espressive dettate dalla partitura: colori umbratili, fraseggio di grande morbidezza nelle numerose aperture liriche, ma anche innervato dal giusto nerbo ritmico nella vivacità di certi accompagnamenti, specie nei numeri d’insieme; intensità ed energia ben suddivisi fra interiorità e dramma esteriore.
Compagnia di canto suddivisa con equilibrio fra “vecchi leoni” e giovani emergenti. Non è vecchio ma era nel ruolo di Giacomo V anche quindici anni fa Juan Diego Flórez, che continua ad affascinare con il suo timbro chiaro, la linea vocale duttile, l’eleganza e la precisone in acuto, riservando magnifiche sfumature specialmente alla sua grandiosa Cavatina all’inizio del secondo atto. Esperto ed efficace anche l’altro tenore, Michael Spyres, Rodrigo, che doma una parte terribile per l’estensione di una tessitura che passa dal sovracuto a sprofondi nel grave difficili da gestire. Fra gli uomini, bene anche Marko Mimica, che offre timbro corposo e buona cantabilità al ruolo di basso di Duglas. Debuttanti le due voci femminili principali: il giovane soprano georgiano Salome Jicia, proiettata sul palcoscenico dell’inaugurazione dall’Accademia Rossiniana di cui ancora l’anno scorso era componente, ha fatto valere agilità, gradevolezza timbrica, ricchezza di sfumature; il mezzosoprano armeno Varduhi Abrahamyan ha proposto il personaggio “en travesti” di Malcom con efficacia sia nella spericolata coloratura che nella morbidezza di una linea di canto di fascinosa interiorità.
Tutti sono stati salutati all’Adriatic Arena da vivissimi applausi a scena aperta; alla fine accoglienze cordiali, non particolarmente insistite.
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