di Attilio Piovano
Chiusura di Festival piuttosto inconsueta e, a quanto pare, graditissima, per MiTo 2016: di solito la grande kermesse settembrina si concludeva con un’importante orchestra e invece quest’anno ecco che al Lingotto un pubblico festante e in parte nuovo affollava la sala, la sera dello scorso 21 settembre, per assistere al recital di Toquinho, affiancato da un pool cameristico di eccezionali musicisti, prima fra tutti la straordinaria violoncellista Ophélie Gaillard alla quale l’ensemble stesso fa capo.
Per la verità la grande orchestra c’è stata eccome, e allora non si può non segnalare – sia pure en passant – il vero e proprio trionfo di Riccardo Chailly al Regio, alla guida della Filarmonica della Scala, la sera precedente: una serata per intero dedicata a Schumann con l’Ouverture dal Manfred op. 115a di cui Chailly ha posto in luce tutto il tormentato spirito Sturm und Drang, poi il magnifico Concerto pianistico op. 54 nel quale ha giganteggiato la fuoriclasse Beatrice Rana, restituendone tutta la fragranza e l’intensità espressiva con una maestria che è raro trovare in una giovane della sua età, infine la Seconda Sinfonia, mai apparsa così policroma, luminosa, altisonante e gioiosa.
Toquinho, dunque: che in realtà si è materializzato, per la gioia dei suoi entusiasti fans, solamente nella seconda parte della serata ottimamente sostenuto da Gabriel Sivak, pianista, anche autore delle gustose quanto raffinate trascrizioni proposte, Juanjo Mosalini al bandonéon, Romain Lecuyer contrabbasso e chitarra, Fabien Cyprien trombone, nonché i percussionisti Rubens Celso Lopes e Flonet Jodlet. Inizialmente la versatile Ophélie Gaillard e i suoi compagni di avventura ci hanno fatto sognare sul côté ispano-argentino. E dunque l’immancabile struggente Piazzolla, ma non solo, in un mix di languori e sfrenatezze ritmiche, il tutto propiziato dall’energetica Ophélie Gaillard, tecnica strepitosa, una singolare propensione all’improvvisazione, o più propriamente verso quella souplesse, quell’amabile confidenza con il testo che solamente i barocchisti, gli organisti e i jazzisti possiedono. In scaletta erano annunciati anche brani di De Falla e di José Dames & Horacio Basterra, ma si sa: in questi casi non è veramente importante che cosa i musicisti hanno eseguito esattamente, bensì l’atmosfera che hanno saputo evocare, magari scombiccherando all’ultimo le carte, trascinando bensì il pubblico in un vortice di emozioni.
Poi, dopo l’intervallo regolamentare, ecco Toquinho salire sul placo, dinoccolato e flessuoso, l’immancabile chitarra acustica che maneggia con una scioltezza impagabile e la sua voce inconfondibile, un po’ nasale, dall’escursione non amplissima, ma assai espressiva, soprattutto, erede di un universo intero, quello brasiliano nel quale la sua musica è profondamente radicata. Come sempre accade nei suoi recital, Toquinho alterna i brani a digressioni parlate, non già arringando il pubblico come certe star del rock, dunque imponendosi non tanto con vigoria o con accenti spettacolari, quanto piuttosto con quel suo modo carismatico e solo in apparenza dimesso, come conversando in un salotto, in quel suo italiano reso ancor più musicale dalla cadenza portoghese (i suoi genitori, merita rammentarlo, erano pur sempre nostri connazionali); e allora vai con i racconti a metà tra l’autobiografico e l’affabulazione colta, i riferimenti ai suoi maestri, ai suoi idoli e ai suoi amici-collaboratori artistici, da Antônio Carlos ‘Tom’ Jobim al poeta Vinícius de Moraes a Chico Buarque che lo introdusse in Italia molti decenni or sono: quando a cantare certe sue canzoni – come Tristezza e La voglia, la pazzia che non a caso hanno chiuso in bellezza il recital torinese, elargiti quali graditi bis – era la ‘nostra’ Ornella Vanoni. Pimpanti ritmi di bossa nova, la danza prediletta da Toquinho, qualcosa di cromosomico e innato, e per contro certe striature, un caratteristico spleen, un occhio di riguardo a Bach appreso dal suo maestro Paulinho Nogueira, e così pure al ‘nume tutelare’ Villa-Lobos, certe malinconie che nei suoi pezzi più autentici ed ispirati non si sa se attingano più al versante della Buenos Aires di Piazzolla o al mondo di certa Parigi post anni ’50, tanto fascinoso quanto dai ben riconoscibili modelli. Il risultato è un crogiolo di stili, di stilemi, di suggestioni che comunque sia – occorre ammetterlo – fanno spettacolo e innescano emozioni. Successo pieno da parte dei fans di sempre che – per definizione – applaudono Toquinho in maniera a-problematica, incondizionata come di default a un semplice arpeggio di chitarra, oppure dinanzi ad un sofisticato giro armonico (quelli in cui Toquinho è maestro, che va centellinando con studiata parsimonia), ma anche da parte di alcuni più scettici o anche solo meno inclini a quel mondo che volentieri vi si sono assoggettati, lasciandosi cullare, ‘graffiare’ e sedurre, almeno per una sera. Diversa e indimenticabile.