di Alberto Bosco foto © Javier del Real
L’Otello di Verdi con cui s’è aperta la nuova stagione dell’Opera di Madrid non ha suscitato grande entusiasmo, almeno tra il pubblico della prima; ma va detto che si trattava per lo più di personalità attirate più dall’occasione mondana che dalla musica – la sera dell’inaugurazione coincideva con il compleanno della regina Letizia, presente in sala e omaggiata dall’orchestra dopo l’intervallo con un sinfonico Happy Birthday. Tra la distrazione e l’indifferenza però si sono fatti sentire chiari dissensi dal loggione, rivolti in particolare al direttore Renato Palumbo e soprattutto al regista David Alden: dissensi ampiamente ingiustificati, che meritano qualche riflessione.
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La direzione di Palumbo è stata accurata e ricca di sfumature, contrassegnata da un’estrema variazione di tempi e di dinamiche, che forse sarà parsa eccentrica o esagerata ai fischiatori del Real, ma che puntava a mettere in luce un aspetto pur essenziale di questa partitura, ossia il suo nervosismo quasi espressionista: tra rapinosi accelerandi ed estenuanti rarefazioni, Palumbo ha cercato di conferire la “tinta” particolare di quest’opera, a tratti concitata e a tratti dilatata, sempre sull’orlo della rottura, come i nervi del suo protagonista. Forse gli si può rimproverare una certa esteriorità di effetti e l’assenza di una tensione interiore che unisca i vari episodi in un arco, ma questo può essere dovuto anche alle insicurezze di una prima e comunque non si tratta di un peccato che giustifichi fischi e urla, altrimenti si dovrebbe dare del cane a chiunque non sia Karajan.
La regìa di Alden era sulla stessa lunghezza d’onda della direzione, ovvero orientata a far emergere i lati profetici dell’Otello, questa partitura scritta da un uomo nato nel 1813 e che sembra anticipare già la crisi della cultura europea dell’epoca tra le due guerre. Non a caso i costumi scelti dal regista erano quelli che si sarebbero potuti vedere per una Lulu o per Morte a Venezia, e le scene erano ridotte al minimo per far risaltare al massimo il dramma privato, l’incubo che a poco a poco s’impossessa dell’eroe e lo annienta, in un ambiente desolato e apparentemente privo di contatti con l’esterno (non si deve dimenticare che la tragedia si svolge su un’isola e che Verdi aveva all’inizio immaginato di scrivere un’opera senza cori). Certo è che questo squallore, unito a un po’ di goffaggine nelle scene d’insieme, deve aver irritato il pubblico di una serata di gala che si aspettava una messa in scena più sontuosa e più adatta un grande palcoscenico come quello del Real. Coerente con questa visione, Alden ha però commesso un passo falso nella difficile scena del giuramento, qui risolta in modo macabro con un patto di sangue tra Otello e Jago: il primo infatti cade nella trappola non per desiderio di autodistruggersi, ma perché troppo nobile per sospettare la menzogna nel suo braccio destro, e quest’ultimo riesce nella sua trappola proprio perché non è grossolanamente diabolico, ma è sottile e calcolatore.
Per questo, nel terzetto di protagonisti merita una particolare menzione George Petean per il suo Jago impassibile e freddo, lontano dai toni truculenti e mefistofelici in cui è facile distorcere questo personaggio: anche nel Credo è riuscito a mantenere una sua compostezza, continuando poi a modulare il suo personaggio nei limiti di quel declamato poco cantabile che Verdi gli ha assegnato e che ben s’adatta a quella che poi si chiamerà la banalità del male: alla fine dell’opera, una volta riuscita la sua macchinazione, lo Jago di sembrava indifferente, ormai stanco di se stesso e del suo gioco. Brava anche Ermonela Jaho nell’uso delle mezze voci con cui ha saputo rendere una Desdemona pura e incapace di concepire il male, ma forse un po’ troppo evanescente nell’ultimo atto, complice i tempi lenti della direzione. Infine, sempre magistrale Gregory Kunde come protagonista, per il suo magnetismo teatrale e per l’autenticità della sua espressione.
Insomma, nel complesso uno spettacolo degnissimo, non perfetto, ma capace di trasmettere un’immagine piuttosto veritiera di questa complessa opera verdiana.
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