di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
RINNOVANDO UN APPUNTAMENTO – quello dell’esecuzione del Requiem verdiano – che per la Scala rappresenta una sorta di invariante nel tempo, collegato o meno a una specifica commemorazione funebre, Chailly è ritornato dopo un paio d’anni dalla sua ultima prova in tal senso a dirigere il Requiem di fronte a un pubblico che riempiva il teatro in ogni ordine di posti. Cambiano i direttori, cambiano i solisti di canto e il coro, ma il capolavoro verdiano esercita sempre un fascino irresistibile per ogni ascoltatore che conosca la partitura per averla già sentita numerose volte o per il neofita che si trovi nell’invidiabile condizione di essere travolto dalle impressionanti sonorità, dalla umanità vibrante di emozioni, dallo spettacolare crescendo di sequenze musicali che caratterizzano queste pagine.
L’aspetto che forse non avevamo ancora messo a fuoco nell’attuale visione del Requiem da parte di Chailly ci è sembrato svelarsi a poco a poco durante la serata dello scorso sabato, attraverso una lettura della quale si poteva in prima approssimazione cogliere una scelta di drastico allargamento dei tempi, che non scalfiva affatto la valenza espressiva della partitura. Il direttore associava infatti a questa possibile scelta di fondo un incremento nella densità di suono richiesta all’orchestra, ai solisti e al coro, compensando in questa maniera l’apparente mancanza di una tensione espressiva che a torto sembra essere solamente prerogativa di concezioni più sbilanciate in termini di velocità di metronomo o di esasperata teatralità.
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A ben vedere, la concezione del tempo può variare sia da interprete a interprete che, per uno stesso direttore o solista, con il trascorrere degli anni. Non solo: la percezione che deriva dall’ascolto può trarre spesso in inganno, in quanto la velocità percepita può discostarsi per eccesso o per difetto qualora venga confrontata attraverso una semplice misura della durata effettiva di una esecuzione. Letture che ricordavamo alquanto tese e concise, come quella di una famosa registrazione di De Sabata, risultano in realtà molto più estese di altre in termini cronometrici. Né così veloci – come effettivamente oggi si può constatare – erano sembrate ai tempi alcune esecuzioni del Requiem da parte del giovane Riccardo Muti. La scelta di cinque tra le molte esecuzioni dirette negli anni da Chailly risulta a questo tipo di verifiche molto più omogenea: la durata si discosta infatti di poco da una media che si colloca attorno all’ora e 25 minuti, pressappoco quella rispettata da un direttore affine come Claudio Abbado. L’esecuzione dell’altra sera era solo leggermente più dilatata in termini temporali (di un paio di minuti) ma appariva, come già detto, molto più distesa e “lunga” rispetto alla durata cronometrica. Cos’è quindi accaduto?
A un primo impatto, la convinzione relativa a un più lento trascorrere del tempo dipendeva dal fatto che si potevano cogliere inediti effetti strumentali accompagnati dalla perfetta percezione di ogni sillaba del testo anche da parte del coro. Naturale dunque pensare che un simile risultato fosse possibile solamente grazie a una riduzione della scansione ritmica, elemento che abbiamo verificato essere vero soltanto in minima parte. Nei momenti più impressionanti di intervento del coro, strumento preziosissimo del patrimonio scaligero e sempre mirabilmente preparato da Bruno Casoni, si insinuava allora il sospetto che il fenomeno di apparente dilatazione temporale fosse dovuto a una chiave di lettura più insolita e nascosta, quella che permette a Chailly, dopo le decennali esperienze ad Amsterdam e a Lipsia, di guardare al Requiem verdiano non solo attraverso il tradizionale aspetto di commistione tra la tradizione del melodramma e quella che fa capo al patrimonio genetico della musica sacra di Palestrina, ma anche con la sensibilità di chi ha approfondito l’universo della grande musica liturgica di tradizione protestante.
Attraverso questa rinnovata e forse inconscia rivisitazione del testo musicale si può dunque spiegare il perché della percezione di una solennità (anche in termini di scansione temporale), di un rigore che quasi avvicinavano il Requiem verdiano al mondo delle grandi Passioni di Bach, per non accennare persino al Requiem brahmsiano, opera tradizionalmente vista in antitesi rispetto all’analogo del nostro Verdi. All’interno di questa concezione risultavano meno interessanti le specificità delle quattro voci soliste. Si sono potuti comunque ascoltare i più che ragguardevoli interventi del tenore Francesco Meli, della mezzosoprano Daniela Barcellona e del basso Dmitri Belosselskij. Improntata a uno stile più melodrammatico e a volte al di fuori dell’imprinting voluto da Chailly ci è parsa la partecipazione di Krassimira Stoyanova, che non a caso ha cantato la propria parte più volte sotto la bacchetta di Muti.
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