di Monika Prusak foto © Franco Lannino
Segnato da cruda carnalità, il Macbeth verdiano apre la Stagione 2017 del Teatro Massimo di Palermo in coproduzione con il Teatro Regio di Torino e il Macerata Opera Festival. La regista Emma Dante copre il palcoscenico con un lenzuolo gigante macchiato di rosso, che sputa e inghiotte personaggi: dalle protagoniste indiscusse, le Streghe, allo stesso Macbeth, che si presenta in scena su uno scheletro di cavallo. Il telo insanguinato fa da sottofondo all’orgia iniziale tra streghe e satiri, con gravidanze e successivi parti, anch’essi colmi di sangue e dolore. La regista identifica così «un’opera grande» delle streghe con la procreazione, ottenuta attraverso una carnalità pressoché animalesca e straziante al confine tra il piacere e la sofferenza. Quello delle streghe umanoidi dalla gestualità primordiale è quindi un mondo di vita e continuità, messo a confronto con il “mondaccio” umano che oscilla tra morte e follia.
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A fianco della regia fantasticante della Dante, le scene scarne e minimaliste di Carmine Maringola presentano un gotico raffinato, che riflette in maniera essenziale gli oggetti dorati quali le lance e i numerosi troni di diverse altezze, nonché i cancelli a forma di corona che esternano l’animo dei protagonisti. Macbeth e la Lady si inseguono, infatti, con passione tra le sbarre dei luminosi cancelli. Le luci di Cristian Zucaro completano i quadri in maniera efficace, inserendosi sapientemente negli ambienti asciutti e bui del castello. Tra le scene di maggiore effetto si colloca l’uccisione del Re di Scozia Duncano, che tra costumi, luci e organizzazione scenica dei personaggi sembra una rappresentazione vivente della Flagellazione di Cristo di Caravaggio, oltre alle scene del ballo e dell’ultimo atto prevalentemente in bianco e nero. Fra questi il suggestivo coro “Patria oppressa” con i profughi distesi a terra e coperti da lenzuola bianche che illuminano il buio totale dell’ambiente e la scena di sonnambulismo della Lady, intrappolata tra letti ospedalieri danzanti con lenzuola bianche macchiate di sangue. Le coreografie coraggiose di Manuela Lo Sicco si spingono oltre la consueta e pudica gestualità del teatro d’opera, proponendo gambe divaricate in direzione dello spettatore sino al momento del parto in massa delle streghe e orge che si protraggono anche eccessivamente. Un punto forte della produzione sono i costumi stilizzati di Vanessa Sannino.
Tra i protagonisti spicca Banco di Marco Mimica, cantante di grande fascino e ottima presenza scenica. Il suo Banco è fermo e distinto, come lo è la sua voce, e riesce a colmare senza fatica il vuoto totale della scena. Giuseppe Altomare, che ha sostituito l’indisposto Luca Salsi, è all’altezza di un Macbeth diviso tra il sogno del potere e la fragilità interiore. Adatta, anche, la vocalità dai tratti lirici, proprio quella caratteristica che serve a svelare il lato debole del carattere di Macbeth, sottomesso al determinato dettato della consorte. Anna Pirozzi regge benissimo il difficile ruolo della Lady, proponendo un’interpretazione credibile in quanto a lavoro scenico e vocale, un poco meno dal punto di vista caratteriale. La protagonista risulta troppo dolce e poco smaliziata nella corsa al potere, per cui le sue incitazioni perdono di intensità, mentre «Ora di morte e di vendetta» diventa quasi un duetto d’amore. Commuove la vocalità lirica del tenore Vincenzo Costanzo in Macduff, la cui voce leggera è perfetta per questo ruolo, facendo tanto pensare ai tenori donizettiani. Risultano ben affiatati i dialoghi tra Macduff e Malcolm, interpretato da Manuel Pierattelli che, nonostante una voce interessante, è un candidato al trono scozzese piuttosto delicato.
Nel Macbeth Verdi sperimenta nuove sonorità: dall’uso di numerose sfumature vocali e del parlato, sino all’impiego dei fiati, soprattutto degli ottoni, in maniera del tutto inconsueta. Gabriele Ferro inizia la direzione con troppa riservatezza, perdendo la vena minacciosa e tesa dei piano verdiani, che avrebbero potuto aiutare Lady Macbeth a trovare quella malizia che le è mancata. L’orchestra si risveglia nei momenti più movimentati e definitivamente prende il possesso dell’azione nel IV atto, proponendo un finale di grande effetto con l’eccellente fugato della battaglia. È cruciale la partecipazione del coro, un protagonista vero e proprio, che viene sfidato da Verdi nelle parti a cappella, spesso insieme ai solisti, affrontate dal Coro del Teatro Massimo in maniera esemplare. Rimane in mente e viene applaudito a lungo il «Patria oppressa», preparato bene dai tremoli del timpano e cantato al buio da un coro interminabile in un piano omogeneo e puntuale.
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