di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese
LA STAGIONE DEL REGIO DI TORINO prosegue felicemente con una serie di notevoli e meritati successi. Dopo la produzione di Sansone e Dalila (con Daniela Barcellona e il grande Gregory Kunde) ottimamente diretto dallo scrupoloso Pinchas Steinberg e con la ‘cinematografica’ regìa di Hugo de Ana e dopo l’approdo nel capoluogo subalpino del musical West Side Story, più di recente il Regio ha registrato vivaci consensi con una nuova produzione di Pagliacci per la regìa di Gabriele Lavia che ha ambientato il titolo verista nel primo Dopoguerra: con Nicola Luisotti bacchetta di lusso ed Erika Grimaldi in gran forma. Ora, a partire dallo scorso 15 febbraio 2017, è la volta di Kát’a Kabanová di Janáček – mai approdata a Torino – per la raffinata ed elegantissima regia di Robert Carsen (ripresa per l’occasione da Maria Lamont). Il titolo fa seguito alla pur diversissima e fiabesca Volpe astuta ammirata nella passata stagione; e si tratta del secondo pannello di un trittico che troverà compimento il prossimo anno con l’ancor dissimile e pseudo-verista Jenufa (progetto Janáček-Carsen).
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L’allestimento di questa superlativa Kát’a Kabanová il cui plot ha per protagonista una giovane donna, sognatrice e idealista, vittima delle convenzioni sociali nonché pesantemente angariata dai tremendi soprusi di una suocera arcigna e malvagia che ne segna il destino in maniera ineluttabile, è quello, ormai ‘storico’ ma tuttora validissimo, dell’Opera di Anversa poi approdato alla Scala e pluri-premiato. Scene a cura di Patrick Kinmonth di claustrofobica geometria e di rara bellezza, dai colori per lo più traslucidi con prevalenza di gradazioni dall’azzurro chiaro al blu notte, valorizzati dalle sapienti luci di Carsen stesso e di Peter Van Praet, costumi anni ’50 del Novecento a firma dello scenografo medesimo. Idea cardine è la centralità dell’acqua, come elemento scenico ma, direi, altresì simbolico, quasi psicanalitico con tutti i rimandi possibili del caso. E allora palcoscenico per intero ‘allagato’ ed il determinante apporto di un pool di ottime danzatrici: coreografie bellissime e perfettamente funzionali di Philippe Giraudeau, e le ragazze bianco vestite e scalze che già in apertura si gettano in acqua con movimenti eleganti a prefigurare il tragico destino di Kát’a. Non solo: a loro spetta un ruolo determinante nel movimentare a vista le numerose ‘pedane’ lignee che diventano di volta in volta passerelle per i protagonisti, piattaforma centrale ad evocare un ambiente domestico (ma attorniato dall’acqua come da un lago di angoscia) e da ultimo ad evocare le due distanti ed irraggiungibili banchine del Volga nelle cui acque gelide Kát’a cerca volontariamente la morte, soccombendo a un tragico destino: vittima di un fato che la sovrasta inesorabilmente, come del resto nel dramma di Ostrovskij L’uragano dal quale è tratto il libretto (di Janáček stesso).
Alla fragile e delicata figura di Kát’a, preconizzandone il luttuoso esito fin dall’Ouverture interpuntata di cupi rintocchi di timpani, quasi palpitante presentimento di morte, Janáček riserva un’attenzione specialissima entro una partitura di grande fascino specie timbrico, ibridata di dettagli stupendi. Per dire, l’ingresso in scena di Kát’a è un capolavoro di poesia, potresti ascoltarla ad occhi chiusi e ti accorgi di quando la donna appare, circonfusa da un’aura sonora di fragrante, giovanile e ardente femminilità. Sensi di colpa, incomprensioni da parte di un mondo maschile e maschilista interessato solamente al denaro e agli affari, dominano nella vicenda di quest’opera toccante che ha quasi cent’anni e li porta benissimo. Il canto assume per lo più i connotati di un declamato continuo di duttile e flessuosa bellezza, che in qualche caso si apre a veri e propri squarci lirici, anche un duetto nell’ultima parte. E se sotto il profilo drammaturgico il primo atto si rivela appena un poco debole, in seguito l’opera decolla senz’altro e ti prende con la serrata efficacia del suo incalzare. La musica oscilla tra toni grotteschi a sbozzare i personaggi più popolari e tratti tragici, caratterizzando di volta in volta la passione ardente, la gelosia, la debolezza d’animo del marito Tichon, del tutto succubo della perfida madre, incapace di prendere le difese della moglie, agli empiti appassionati volti a delineare l’incontro di Kát’a con l’amante Boris. E c’è anche un che di piccante (e quasi demoniaco nel contempo), nella pur bella figura della spregiudicata, amorale e tentatrice figlia adottiva Varvara, cui spetta un ruolo centrale nella vicenda (dacché è lei a propiziare l’incontro di Kát’a con l’amante).
L’agghiacciante finale, col suicidio di Kát’a e l’invio di Boris in Siberia è preceduto dalla scena in cui la donna, quasi in trance, come in preda alle allucinazioni ‘vede’ la sua stessa tomba: e allora una sola sottolineatura, per dire della bravura di Janáček nel far convivere ritmo di marcia funebre, con un luttuoso pulsare di timpani, ed anche aure primaverili a delineare fiori e uccellini evocati dal testo. Quanto all’impassibile freddezza della suocera di fronte al suicidio è un vero e proprio trattato di sociologia.
In partitura si percepiscono echi straussiani e talora mahleriani, ma per lo più Janáček mantiene una sua autonomia linguistica che seduce e incatena. Punto di forza della sua musica e del suo teatro, come osserva Marco Angius, che ha ottimamente diretto, cesellando una miriade di particolari e nel contempo leggendo la partitura per grandi pennellate, sono «la carica emotiva» e la capacità di «coinvolgimento drammatico» che si sprigionano fin dai primi istanti, nonché una singolare sensibilità per l’introspezione psicologica di segno del tutto novecentesco (molto slavo ovvero russo) nel tratteggiare i personaggi in maniera nitida. E allora i tratti irti, angolosi ed ispidi per la cattiveria della suocera Kabanicha, per contro un’allure vistosamente impregnata di lirismo per la dolce e sensibile Kát’a che emergono fin dai primi istanti.
Successo pieno per un cast di specialisti: l’ottima Andrea Dankova, una Kát’a partecipe e coinvolgente, Štefan Margita (il debole Tichon), Rebecca de Pont Davies (abile nel delineare tutta la sgradevolezza insita nel personaggio della suocera), l’aitante Misha Didyk dall’esuberante vocalità (Boris); impossibile citare tutti i comprimari, pur tuttavia almeno un cenno merita l’ottima e sbarazzina Lena Belkina (Varvara). Della direzione di Angius già si è detto, ben assecondato dall’Orchestra del Regio in splendida forma del tutto a proprio agio in una partitura a tratti impervia ed insidiosa (di grande impatto, sia musicale sia scenico, il temporale che si abbatte furioso, quasi contraltare delle tempeste dell’animo in apertura dell’atto terzo). Buono l’apporto del coro, come sempre istruito con scrupolosa professionalità da Claudio Fenoglio.
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