Tra prime esecuzioni ed interpretazioni di lavori di Justė Janulytė spicca l’omaggio al padre del modernismo musicale in Lituania
di Gianluigi Mattietti
Il FESTIVAL DI VILNIUS si è aperto quest’anno con un applauditissimo concerto di arie d’opera di Elīna Garanča, con L’Orchestra sinfonica nazionale lituana diretta da Karel Mark Chichon. Una vera primadonna. Alte due primedonne, Eglė Šidlauskaitė e Viktorija Miškūnaitė, poco note fuori dai confini della Lituania, hanno illuminato l’allestimento di Capuleti e Montecchi, uno degli appuntamenti clou della rassegna. Niente di edulcorato e romantico nella regìa di Vincent Boussard (ripresa da Monaco e San Francisco). Niente suggeriva l’innocenza e la spensieratezza dei due giovani amanti, manca a ogni riferimento storico e anche il colore locale delle calzamaglie e delle maniche e sbuffo. Era piuttosto una regìa “dark”, dove Romeo e Giulietta apparivano come protagonisti cupi, fragili, tormentati, di un teatro interiore, per niente realistico, circondati da personaggi ostili. Due figure esangui, che non entravano mai in contatto tra loro, che sembravano muoversi in due universi paralleli, come se una forza misteriosa li tenesse sempre a distanza. E solo alla fine, uniti dalla morte, si incamminavano mano nella mano come in una ieratica processione. Le scene di Vincent Lemaire disegnavano uno spazio astratto, chiuso da due grandi pareti e un lavandino (al posto del balcone) sul quale saliva Giulietta, scalza, in sottoveste, disfatasi del suo abito da sposa, protratta verso due sculture che pendevano dall’alto, come angeli dell’amore. Poi una lunga scalinata che saliva all’infinito e scendeva sotto il palcoscenico, percorsa dal coro che scandiva, con passi pesanti e ritmati, quasi una marcia funebre. Chiudeva il boccascena un’enorme cornice, sulla quale camminava instabile Giulietta, come in bilico tra la vita e la morte. Le luci dal basso proiettavano anche un gioco di ombre sulle pareti, come di fantasmi, e i bei costumi di Christian Lacroix aggiungevano un tocco sofisticato e sinistro allo spettacolo. Il mezzosoprano Eglė Šidlauskaitė (che ha studiato anche al Conservatorio di Milano) era un Romeo dal timbro ambrato, dall’emissione omogenea, con un’eccellente tecnica vocale e grande carattere.
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La Miškūnaitė, una Giulietta dalla voce soave, piena di sfumature, e dagli acuti sicuri, dimostrava anche ottime doti di recitazione e grande agilità sulla scena (ha fatto anche l’attrice e la modella) cantando la sua aria «Oh quante volte, oh quante!» in pose instabili sul lavandino, e restando, nella scena della tomba, in piedi, immobile, raggelata, bellissima nel suo candido incarnato, come una scultura di alabastro. Bel timbro e molta musicalità sfoggiava anche il tenore portoghese Carlos Cardoso, peccato solo che la voce tendesse un po’ a chiudersi nell’acuto. La direzione di Sesto Quatrini (giovane direttore romano, molto attivo nei paesi baltici, a lungo collaboratore del soprano lettone Kristīne Opolais), raffinata, piena di sfumature, curava molto bene gli equilibri tra la buca e il palcoscenico, imprendo grande peso drammatico a tutte le scene.
Un’altra “primadonna” a Vilnius è stato Mario Brunello, in uno concerto dove ha eseguito Midnight Sun, nuovo lavoro per violoncello e orchestra d’archi di Justė Janulytė, una delle voci più interessanti nella musica contemporanea dei paesi baltici. La compositrice lituana, che è stata allieva di Luca Francesconi e di Helena Tulve, e che da anni vive e lavora in Italia, ha abituato il pubblico a lavori di grande seduzione, basati su continue metamorfosi timbriche, su dense textures monocromatiche e minimaliste, su scritture strumentali dove gli ensembles sono concepiti come un unico, utopico strumento dall’estensione enorme. La sua musica è spesso influenzata da metafore acustiche, da suggestioni di tipo ottico (come White music per archi, del 2004), dall’armonia delle sfere, dal suono delle galassie (interesse trasmessole dal padre, noto astrofisico). E sempre in una dimensione avvolgente, molto calibrata, carica di tensione, come si può vedere in Aquarelle (2007) per coro da camera, basato su pulsazioni regolari e sequenze di scale diatoniche; in Textile (2008), lavoro per orchestra costruito come un ordito privo di attacchi, ispirato all’idea di un suono che emerge dal silenzio e che al silenzio ritorna; in Elongation of Nights (2009) per archi, che si muove su due percorsi temporali distinti; in Sandglasses (2010), dove quattro violoncelli, avvolti in colonne trasparenti (con video e al live electronics) creano l’effetto di enormi clessidre e sembrano riflettere sul trascorrere del tempo; in Radiance (2015), per coro ed elettronica, un lento crescendo con una scrittura antifonale e ondate armoniche che evocano processi di radiazione, effetti di decomposizione e di fusione; nel recentissimo The Colour of Water (2017) per sassofono e orchestra da camera, con la parte solistica che oscilla come un pendolo tra note gravi e acute, lasciando lo che spazio intermedio venga via via riempito da un “liquido” orchestrale trascolorante.
In Midnight Sun La Janulytė intendeva evocare le notti bianche che si vedono in Lituania, costruendo una trama densa e impalpabile (all’inizio), con 54 archi a parti reali (i 10 violoncelli disposti a semicerchio intorno al solista, come per creare una sorta di camera d’eco), una superficie sonora lievissima (anche per l’uso delle sordine di metallo) che portava però via via a un climax dirompente. Peccato che il protagonismo di Brunello abbia compromesso questo delicato equilibrio, sovraesponendo io suoi austeri giochi intervallari, geometrici e ripetitivi, e occultando il sottile gioco di rifrazioni tra le parti strumentali. Ottima la direzione di Modestas Pitrenas (sul podio dell’Orchestra nazionale lituana), che ha dimostrato una visione nitida, e musicalissima, anche negli altri pezzi eseguiti nello stesso concerto: nell’Adagietto dalla Quinta di Maher, restituito con un suono asciutto, senza enfasi, senza aloni, ma con grande lirismo; e in due pagine mendelssohniane, Ruy Blas la Sinfonia Italiana, con un saltarello finale trascinante e pieno di fremiti.
Nel Festival di Vilnius si sono poi festeggiati gli 80 anni di Osvaldas Balakauskas, padre del modernismo in Lituania (che rappresenta un po’ la tendenza opposta rispetto al filone neo-minimalista e “monocromo” della Janulytė), in un bel concerto cameristico diretto da un altro compositore lituano, Vykintas Baltakas. Allievo di Boris Lyatoshinsky e Myroslav Skoryk al Conservatorio di Kiev, Balakauskas è stato punto di riferimento per la nuova musica in Lituania già negli anni Sessanta. È salito alla ribalta internazionale nel 1984, con Spengla-Ula per sedici strumenti ad arco. Dal 1992 al 1994 è stato anche ambasciatore della Lituania in Francia, Spagna e Portogallo. Docente di composizione all’Accademia di Vilnius, ha esercitato una grande influenza sulle nuove generazioni di compositori nel suo paese. Rivisitando le tecniche seriali, smussandone le dissonanze, e introducendo ritmi jazz, ha sviluppato un personale linguaggio musicale che ha riassunto in un trattato, intitolato Dodekatonika. Un linguaggio dal vivace slancio ritmico, dalla scrittura nitida, trasparente, ma anche ricca di increspature e di accelerazioni, come hanno dimostrato, nel concerto, le trame puntillistiche, leggere e sincopate di Arcada (2005) pezzo molto sviluppato per ensemble da camera (eseguito dal LENsemble: Lithuanian Ensemble Network), con impasti timbrici sempre nuovi, con un uso coloristico delle percussioni e una vivace presenza del sax.
Tratti analoghi si coglievano nell’incalzante trama ritmica del Quartetto n. 5 (del 2012, ma qui eseguito per la prima vota dal gruppo dedicatario del pezzo, il Chordos String Quartet), e nei disegni veloci, quasi improvvisativi di Mosaic (2013) per fisarmonica (solista Raimondas Sviackevičius). E nei tre lavori per orchestra da camera (Orchestra da camera lituana): nel Concerto RK (1997) che combinava linee piene di pathos del violino solista (Rusnė Mataitytė) con una scrittura orchestrale che si faceva via via sempre più dinamica e aggressiva; in Odyssey-2 (2011), dalla densa scrittura per archi; in Adagio cantabile (2011) dominato da morbide frasi liriche e da un tono romantico.
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