di Attilio Piovano foto © Alessandro Bosio
Impossibile sintetizzare in poco spazio la ricchezza e la vastità di un Festival – MiTo edizione 2017 – davvero ricco di contenuti: con appuntamenti di classe, programmi non banali e, soprattutto, costantemente ‘pensati’ secondo un preciso filo conduttore (Musica e natura) numerose ‘prime’ e costante consenso di pubblico. E allora ecco qualche spigolatura sul versante torinese, attingendo al diario di bordo di oltre due settimane di ascolti.
Dopo il successo del concerto iniziale al quale dedicammo una recensione specifica, già la sera seguente (il 6 settembre 2017), per l’Accademia di Santa Cecilia, al Regio, è stato un successo strepitoso con un programma tutto incentrato sul grande Nord. Merito certo della compagine, oggi in assoluto la migliore orchestra italiana, in grado di rivaleggiare con le principali orchestre mondiali, ma altresì del direttore Mikko Franck: gesto nitido e aitante, sempre funzionale al risultato sonoro. Splendidi gli ottoni, in apertura del poema sinfonico Finlandia di Sibelius, dal memorabile attacco: ieratico e solenne, striato di spleen, si fa ben presto vitalistico e propulsivo. A seguire la prima italiana del Concerto per violoncello n. 2 ‘Towards the Horizon’ che il finlandese Rautavaara scrisse nel 2008-09 all’età di 81 anni. A interpretarlo con partecipe affetto il dedicatario, il fuoriclasse Truls Mørk. Pagina evocativa in un unico blocco, dalle atmosfere raggelate, pressoché tonale, rassicurante, con increspature e improvvise accensioni, giù giù sino alla rarefatta chiusa: brano misticheggiante, talora un po’ inconcludente e dispersivo, e pur passabilmente gradevole. Della Quinta di Čajkovskij eseguita nella seconda parte della serata mette conto segnalare il sublime esordio (Andante), poi l’incandescente vigore dell’Allegro dalle contrastate atmosfere, la stupenda intensità del Cantabile (cornista d’eccezione Alessio Allegrini), la garbata leggiadria della Valse e infine l’imponenza assertiva del poderoso Finale, teso e serrato come raramente lo si è ascoltato. Trionfo di pubblico, con applausi fuori ordinanza tra un tempo e l’altro (accolti con benevola ironia dal direttore) e come prevedibile bis, ancora di Sibelius, l’immancabile Valse Triste dall’eleganza un po’ frale, eseguita con impeccabile delicatezza.
Del concerto diretto da Noseda il 7 settembre alla guida dell’Orchestra del Regio – reduce dai fasti estivi ad Edimburgo – è particolarmente piaciuta la freschezza emersa nell’interpretazione della Moldava, con il celeberrimo tema effusivo e cantabile bene in evidenza, quindi i passi impregnati di allusioni al folklore di vivaci danze contadine. Un’interpretazione dai bei colori, attenta alle sfumature: sobria e senza smancerie, eppure nel contempo luminosa e lussureggiante (ma anche delicata nell’evocare le ninfe notturne che la fantasia di Smetana ha saputo delineare). In apertura si era ascoltato di Dvořák il poema sinfonico La colomba selvatica op. 110. Di pagina dal vigoroso spessore sinfonico si tratta, dai passaggi ora turgidi e turbolenti, ora singolarmente delicati, quasi cameristici, percorsa da una mestizia di fondo (vi si narra di una giovane ragazza che uccide il consorte, si risposa e infine pentita si toglie la vita). Decolla verso orizzonti come di danza che l’Orchestra del Regio sotto la guida di Noseda ha saputo affrontare con ammirevole scioltezza, prima della rarefatta chiusa. Da ultimo l’inossidabile ‘Pastorale’ di Beethoven alla quale Noseda conferisce toni morbidi, come pastello, e incisivi nel contempo: ‘tenendo su’ assai bene l’interminabile Andante della ‘Scena al ruscello’, imprimendo la giusta energia alla ‘Lieta brigata di campagnoli’, affrontando il ‘Temporale’ senza esagerazioni, raccordandolo con naturalezza all’Allegretto conclusivo accarezzato con leggiadra fluidità: una gioia per le orecchie, la mente e per il cuore. Bis con la più celebre (e scatenata) tra le Danze ungheresi di Brahms: la prima.
Tra i solisti invitati a questa edizione di MiTo un cenno speciale merita senz’altro l’orientale Zee Zee (Conservatorio, 11 settembre), pianista dal tocco elegante e perlaceo, impegnata in un programma per intero ‘acquatico’; si è fatta assai apprezzare in Jeux d’eau di Ravel e così pure in Gaspard de la nuit. Certo Ondine avrebbe potuto essere un poco più impalpabile e fluida, ma è giovane e ha tempo per crescere, pur avendo già notevole sensibilità (davvero ben timbrato Le gibet, e così pure bene Scarbo se non fosse per qualche occasionale asprezza); soprattutto Zee Zee possiede uno spiccato senso della forma, come ha dimostrato poi ancora in Liszt, Vallée d’Obermann, Jeux d’eau à la Villa d’Este e infine Venezia e Napoli. Anche nel fortissimo più energico il suo suono è sempre morbido e non aggressivo, sfodera bei cantabili e sa dosare i diversi piani sonori, risultando elegante anche nei passi ‘zuccherosi’. In apertura aveva interpretato con garbo gli Eight Memories in Watercolor, graziosi e innocenti acquerelli del suo connazionale Tan Dun: pagine dal linguaggio post-impressionista, semplificato e un po’ ‘annacquato’ (ci si perdoni il gioco di parole trattandosi di acquerelli), brani per lo più tonali, con qualche cenno di modalismo e un uso naïf delle più tipiche scale pentafoniche orientali. Gradevoli, pur nella loro semplice linearità, senza essere banali.
Del concerto dell’Orchestra Filarmonica di Torino (13 settembre, Conservatorio) è piaciuta l’interpretazione dello stravinskijano Uccello di fuoco, diretto con partecipe esuberanza da Giampaolo Pretto: che ha saputo delinearne l’ampia curva espressiva, giù giù sino all’incandescente apoteosi (appena qualche eccesso di enfasi in chiusura e certi equilibri fonici un po’ incerti nella prima parte). La serata s’era inaugurata con la poco frequentata Ouverture beethoveniana dal balletto Le creature di Prometeo che l’OFT ha affrontato con ‘scatto felino’, il giusto humour ‘à la Haydn’, ma nel contempo mostrando le aperture già prossime a certo Rossini. Al centro il vasto Concerto per pianoforte e orchestra di Grieg, solista la venezuelana Gabriela Montero, star iper-applaudita e osannata anche per meriti extra musicali (console onorario di Amnesty International): e allora ecco bandiere e striscioni ad accoglierla, e un pubblico di fans vistosamente di parte. Suona con tocco sempre molto massiccio, anche laddove la partitura del norvegese dai sognanti arabeschi richiederebbe leggerezza, finendo per vanificarne lo spirito prevalente; e l’orchestra, adeguandosi evidentemente all’idea che la Montero possiede del celeberrimo Concerto, ha finito per conformarsi, privilegiando il tono altisonante dei passaggi sinfonici, a scapito di tante zone cameristiche e rarefatte. Nel secondo tempo mancava quasi del tutto il tono da rêverie che ne costituisce il motivo di maggior fascino. Anche nel Finale la Montero ha posto in primo piano l’aspetto atletico (e non sempre tutto era ritmicamente in asse). Entusiasmo alle stelle del pubblico al quale la pianista s’è poi rivolta introducendo una delle sue improvvisazioni per le quali è divenuta famosa, invitando con cordialità a suggerire un tema. Qualcuno ha proposto Je te veux di Satie, ma la Montero ha dichiarato di… non conoscerlo, obiettando inoltre che ci voleva qualcosa di ben più popolare. E allora ecco il primo violino dell’OFT a proporre timidamente un italianissimo O sole mio (sic) su cui la Montero ha poi (finto) di improvvisare (chissà se la faccenda era stata concertata o meno?) limitandosi a giocherellare con il tema, facendolo appena emergere qua e là e offrendo invece ampi passaggi pur ben costruiti (a priori), ora in stile neo-barocco, ora volgendo in ambito quasi jazzistico, per finire con un travolgente e scoppiettante rag. Manco a dirlo ulteriore entusiasmo alle stelle del pubblico (perplessità e delusione invece di musicisti, critici e addetti ai lavori, avvezzi alle vere improvvisazioni su tema del pubblico, ad esempio di organisti di grido, per dire da Jean Guillou a Olivier Latry). Per carità, la Montero non difetta di tecnica e fantasia, anche questo fa spettacolo, solo avremmo voluto un po’ più di onestà intellettuale.
Quanto al concerto della Tallin Chamber Orchestra e dell’Estonian Philharmonic Chamber Choir diretti da Risto Joost, dopo l’esordio col Salve Regina di Arvo Pärt dalle consuete atmosfere ipnotiche (coro, archi e celesta, in bilico tra misticismo e ricerca timbrica con l’unica impennata dinamica ed emotiva su Misericordes oculos ad nos converte) l’intera serata era poi dedicata all’esecuzione (in prima italiana) delle Moorland Elegies su testi di Emily Brontë messi in musica dall’estone Tõnu Kõrvits (2015). Nove brani, per lo più statici, con qualche idea timbrica qua e là (pizzicato degli archi e giochi antifonici delle voci, in qualche caso coro solo a cappella, ora a bocca chiusa in The night is darkening o con la voce solista del contralto Marianna Pärna dal timbro talora acidulo), ora sole voci femminili, ora solo quelle maschili, qualche timido (e prevedibile) neo-madrigalismo, certi passi sillabati recto tono, l’eco del Debussy delle Trois Chansons de Charles d’Orléans in The sun has set, vaghi occhieggiamenti a certo Britten, addirittura a Duruflé, alcuni glissando delle voci, usati un po’ come effetti fine a se stessi, senza che emerga una personalità davvero spiccata. Alla fine la sensazione è di aver ascoltato nove pagine di fatto monocrome e poco incisive. È pur vero che l’autore dichiara di aver voluto esplorare il lato più oscuro e misterioso della solitudine, e allora ecco giustificate melanconia e solipsismo dilaganti.
Trionfo assoluto per OSNRai, la sera del 16 settembre, in Auditorium Toscanini: diretta dal sommo Bychkov, ha regalato un’indimenticabile interpretazione dello stravinskjiano Sacre di cui a lungo conserveremo memoria; e allora gli scuotimenti tellurici, ma anche i momenti sognanti e delicati, grazie a una compagine che si conferma (subito dopo Santa Cecilia e al pari della Filarmonica della Scala) l’unica altra orchestra italiana davvero in grado di reggere al confronto con le principali compagini straniere. Successo personale, poi, del tutto meritato, per il pianista Kirill Gerstein nel Secondo di Rachmaninov e fuori programma ancora con Rachmaninov (Mélodies).
Singolare serata quella con i Pomeriggi musicali (direttore Andrés Salado); in apertura ancora una prima italiana (il merito alla direzione artistica, occorre riconoscerlo, aver incluso in cartellone non poche pagine di autori ‘altri’ rispetto a certa produzione contemporanea in parte datata, presentando linguaggi diversi, insomma l’altra faccia del post-modern, non sempre capolavori, ma di certo pagine e autori da seguire con attenzione). E dunque ecco il Concerto per violino e orchestra di Mohammed Fairouz intitolato “Al-Andalus” ricco di echi e suggestioni. Difficile da descrivere, sul piano linguistico: molto cinematografico e senza dubbio di impatto, per lo più tonale, e con echi folklorici (specie nel finale). Parte solista impervia disimpegnata con una strabiliante bravura da Chloë Hanslip. Una sorta di eclettico patchwork che nel tempo centrale evoca poi spazi sconfinati con passaggi ora materici, ora quasi inudibili, decollando poi infine (Dancing Boy) verso una sorta di scatenatissima pagina non immemore di certa musica khlezmer. Poi ecco le stupende Noches en los jardines de España; la fuoriclasse Lilya Zilberstein ha fatto del suo meglio per farle apparire screziate e policrome, ciò nonostante il tutto è apparso invece (vuoi per l’orchestra, vuoi per la direzione) un poco opaco e bidimensionale. Chiusura di serata nel segno del Boléro, e qui Salado si è fatto apprezzare, nonostante qualche défaillance delle prime parti non sempre impeccabili, per il calibrato dosaggio delle risorse e per il millimetrico accelerando finale che immancabilmente trascina l’applauso.
Felicissima conclusione del Festival con il concerto della Filarmonica della Scala magistralmente diretto da Chailly al Regio il 21. In apertura Lontano di Ligeti eseguito con una fluidità da vero manuale e il culmine in quella zona a fasce che seduce per bellezza timbrica e ingegnosità di scrittura. Poi il Concerto per viola e orchestra di Bartók ottimamente eseguito da Julian Rachlin che ha raccolto vasti consensi, nonostante la pagina, a nostro avviso, non sia un capolavoro (è incompiuta e fu completata dall’allievo Tibor Serly). Il solista e l’orchestra ne hanno ben messo in evidenza i momenti per lo più cupi e sconsolati, cedendo poi al motorismo del Finale, l’unico movimento davvero accattivante. Infine un’interpretazione come raramente è accaduto di ascoltare delle Fontane e dei Pini di Roma di Respighi. Pagine di cui Chailly, potendo contare su una compagine di livello altissimo, ha posto in luce una miriade di dettagli, senza mai perdere di vista la visione d’insieme. E allora quanta delicatezza in Valle Giulia all’alba, quanto sfolgorante colorismo nel Tritone (memore di Rimskij) e quanta lussureggiante opulenza nel meriggio della Fontana di Trevi dalle reminiscenze straussiane, per chiudere con i trasalimenti del tramonto a Villa Medici. Sublime l’attacco dei Pini per magnetismo e verve, scintillante e pirotecnico, con i debiti stravinskijani bene in vista, poi l’intimismo selenico del Gianicolo disseminato di melodie gregoriane. Ammirevole il collegamento tra i tre quadri, soprattutto il trapasso ai Pini della Via Appia e irresistibile l’immane crescendo che conclude il poema sinfonico. Ovazioni indicibili e bis al fulmicotone con la verdiana Forza del destino.
Sul versante barocco da segnalare Il diluvio universale di Michelangelo Falvetti, oratorio tardo seicentesco da poco riscoperto e diretto con grande successo nella juvarriana chiesa di San Filippo la sera del 5 settembre da Leonardo García Alarcón che ne ha evidenziato le icastiche immagini sonore: alla guida della Cappella Mediterranea e Namur Chamber Choir, con un cast di scelte voci soliste. Così pure da ricordare la vibrante interpretazione della partitura oratoriale Die Israeliten in der Wüste dovuta al geniale Carl Philipp Emanuel Bach: a cura di Coro e Accademia del Santo Spirito, ottimamente diretti dallo specialista Ottavio Dantone.
Quanto al balletto è da rimarcare, il Roméo et Juliette di Prokof’ev nell’interpretazione del Ballet Preljocai inserito entro il cartellone MiTo per l’apertura di Torino Danza, al Regio la sera del 12 settembre. Spettacolo energico, con scelte scenografiche assai di impatto, talora se si vuole anche discutibili: così pure sono apparse assai forti alcune scene di violenza per la rappresentazione dello scontro di potere tra la famiglia di Romeo (e allora a caratterizzare i personaggi eccoli vestiti di stracci come di senzatetto) e quella di Giulietta (ecco i vestiti in pelle nera come di poliziotti incaricati di garantire l’ordine sociale). Ambientazione ai tempi attuali, o più propriamente in riferimento ai regimi totalitari dei Paesi dell’Est, quasi a delineare una prigione con tanto di giri di ronda con un pastore tedesco in scena. Tecnicamente bravissimo e molto sciolto Jean-Charles Jousni (nei panni di Romeo). Stupenda la resa dei passi a due tra i protagonisti, specialmente la parte finale del balletto davvero commovente con tanto di disperazione di Romeo che balla col corpo inerme dell’amata e le lacera il vestito rosso in preda al dolore, quindi si uccide; risvegliatasi, Giulietta (l’ottima Yurié Tsugawa) si taglia le vene seduta accucciata su di lui. Impeccabile ed efficace l’intero corpo di ballo. Successo innegabile.