di Attilio Piovano foto © Valeria Fioranti / MiTo
Inaugurata nel segno della Natura, come da simpatico logo (un uccellino stilizzato e per intero costituito da ‘simboli’ musicali) l’edizione 2017 del Festival MiTo, secondo una riconoscibile linea programmatica delineata dall’attuale direttore artistico Nicola Campogrande. Al Regio di Torino lunedì 4 settembre (dopo la Scala la sera precedente) erano in molti a festeggiare quella che per i torinesi è la 40° edizione di Settembre Musica, il blasonato Festival inauguratosi nel lontano 1978 per volontà dell’indimenticabile Giorgio Balmas, in concomitanza dell’allora Ostensione della Sindone: Festival del quale MiTo costituisce la naturale prosecuzione, unendo idealmente ormai da anni la città della Mole e quella della Madonnina nel nome della grande musica. Una festa molto sobria, in stile rigorosamente sabaudo (secondo un certo proverbiale understatement); tuttavia al taglio della torta, pur in assenza di discorsi ufficiali, era palpabile l’orgoglio di molti: alla presenza di autorità e personalità del mondo della cultura, come pure dell’imprenditoria, giornalisti e via elencando, e dunque gli attuali sindaci di Torino e Milano, Chiara Appendino e Giuseppe Sala, le assessore alla cultura del comune di Torino e della Regione Piemonte (Francesca Leon e Antonella Parigi); significativa poi la partecipazione di storici assessori torinesi avvicendatisi nei decenni quali Marziano Marzano, Ugo Perone, e Fiorenzo Alfieri, del Presidente della Giunta Regionale Sergio Chiamparino (che fu sindaco), del coordinatore di ben 40 edizioni Claudio Merlo e, soprattutto, dello storico sindaco di allora Diego Novelli al quale toccò fronteggiare gli anni bui del terrorismo in Italia, oggi purtroppo ri-esploso a livello mondiale.
Ma la musica, si sa, è elemento di pace e fratellanza e allora, al di là della retorica, è davvero bello festeggiare 40 anni di grande musica. Sul palco la Gustav Mahler Jugendorchester; diretta con scrupolosa esattezza e partecipe esuberanza dall’esperto di Novecento Ingo Metzmacher, ha aperto la serata con una pagina della contemporanea Anna Clyne, classe 1980, dal titolo This Midnight Hour. Si tratta di un brano del 2015, in prima esecuzione per l’Italia, espressamente ispirato, per ammissione dell’autrice, ad alcuni versi di Baudelaire, come pure di Juan Ramón Jiménez e volto a ricreare l’atmosfera di un paesaggio notturno urbano. Nel suo gradevole eclettismo spazia da momenti energetici dal motorismo ipercinetico post Šostakovič a zone rarefatte e, per contro, fin troppo statiche, come di pseudo corale; con strizzate d’occhio al mondo delle colonne sonore cinematografiche, una citazione talmente evidente da essere di certo intenzionale dello stravinskijano Sacre, suoni come di fisarmonica, echi straniati di valzer sghembi e altro ancora. Pagina scritta bene, formalmente rapsodica, in bilico tra minimal e cordiale tonalismo, lontana dalle asprezze di certa avanguardia ormai invecchiata precocemente, accolta dal pubblico con compassata benevolenza, nonostante qualche stranezza e bizzarria e pur in mancanza di tocchi di genialità, ma nemmeno banalmente prevedibile.
Poi ecco Gershwin e il suo vasto Concerto in fa per pianoforte e orchestra. Direttore, compagine orchestrale e solista, il raffinato Jean-Yves Thibaudet cui non difettano tecnica e sensibilità (ma che forse è più a suo agio con certo Debussy che non con lo swing jazzistico) hanno fatto del loro meglio in questa pagina che ha sempre sofferto di un certo accademismo al confronto con la fresca e ispirata Rhapsody in blue. Bene i due tempi estremi, innervati di brio e luminescenti atmosfere, dove l’orchestra ha potuto far brillare il proprio suono, con le zone cantabili bene in vista che hanno goduto del bel tocco di Thibaudet; memorabile l’attacco del toccante Adagio, a ben guardare la parte più emozionante del Concerto intero; pur tuttavia una lettura analitica da parte di Metzmacher che l’ha centellinata con troppa estenuazione ha sortito l’effetto opposto, finendo per incrinarne in parte lo charme rendendola eccessivamente dilatata. Per fortuna a strappare calorosi applausi interviene un finale incandescente, eseguito comme il faut col dovuto e plateale effettismo. Bis fuori dagli schemi con solista e direttore seduti l’uno accanto all’altro alla tastiera dello Steinway per eseguire la dolce Berceuse, primo dei brani di cui si compone la deliziosa suite Dolly di Fauré.
Poi un tuffo nella natura con l’Ouverture da concerto op. 91 del sereno e aproblematico Dvořák, intitolata appunto Nel regno della natura: pagina fresca, pur in assenza di temi memorabili, appena qua e là un po’ dispersiva, coi suoi echi mendelssohniani e più ancora di certo Grieg, soprattutto dai riconoscibili vocaboli melodico-amonici messi a fuoco assai meglio nell’Ottava e in certi passi della Nona Sinfonia tra le quali s’incunea. Direttore ed orchestra ne hanno ben messo in luce la trasparente orchestrazione che, di fatto, ne costituisce il pregio maggiore. Finale col botto grazie a una bella esecuzione della seconda suite dal sublime balletto raveliano Daphnis et Chloé, e pazienza se qualcuno avrebbe voluto più souplesse ‘impressionista’ e atmosfere maggiormente flou, dolcemente alonate ed evanescenti nell’iniziale Lever du jour: la successiva Pantomima e soprattutto l’irresistibile Danse générale con la sua orgiastica ebbrezza di baccanale, resa in maniera superlativa dalla Jugend, hanno ben convinto la platea trascinando il teatro intero in un entusiasmo contagioso: che sia di buon auspico per questa edizione davvero ricca di contenuti.