di Alberto Bosco foto © Javier del Real | Teatro Real
Al Teatro Real l’opera seria è sempre più di casa: da quando Joan Matabosch è diventato il suo direttore artistico, non passa anno senza un’opera di Handel (dopo Alcina e Rodelinda, quest’anno ci sarà Ariodante) e molta attenzione riceve anche il Mozart serio. Al punto che per inaugurare una stagione simbolicamente importante come quella ’17-18, in cui il teatro celebra i duecento anni della sua fondazione e i venti della sua riapertura dopo una radicale ristrutturazione, è stato scelto il Lucio Silla, opera scritta da Mozart a sedici anni e finora mai messa in scena a Madrid.
Il successo sincero del pubblico ha dato ragione all’azzardo, intanto perché la qualità della produzione è stata notevole, ma soprattutto perché il Silla è un’opera che merita di essere ascoltata più spesso, e non solo come testimonianza degli anni di apprendistato del compositore, ma come qualcosa di vivo e capace di reggersi da sé. Infatti, è percorsa da cima a fondo da una sovrabbondanza di idee musicali e da un entusiasmo creativo che compensano la pochezza drammatica della vicenda, non solo, oltre a questo dispendio di temi, che tradisce ancora la vicinanza del giovane Mozart allo spirito galante di Johann Christian Bach, l’opera presenta alcuni squarci visionari e drammatici che rivelano la fascinazione precoce per il demonismo dello Sturm und Drang e una sorprendente ricchezza di scrittura orchestrale nelle introduzioni, negli accompagnamenti e nei recitativi più intensi. Certo è che proprio questa ricchezza sinfonica, che stinge anche sull’andamento strumentale con cui si sviluppano certe linee vocali, dovette parere eccessiva al gusto degli italiani, e questo spiega in parte perché, malgrado il buon successo, il teatro milanese non commissionò a Mozart un’altra opera per la stagione dell’anno successivo.
A differenza dell’Idomeneo, in cui Mozart volle sbaragliare tutti i precedenti modelli francesi e italiani sul loro terreno, il Silla è un’opera in cui non tutto è composto con lo stesso coinvolgimento, ed è il motivo per cui le parti più ispirate (scena del cimitero, il personaggio di Giunia, i cori, certi momenti orchestrali e l’estremo virtuosismo della parte di Cecilio) si stagliano su uno sfondo molto più indifferenziato, assumendo così una portata espressiva ancora maggiore. Per questa ragione, e non perché lo spettacolo, durato quasi quattro ore, sia stato noioso, sarebbe stato auspicabile un maggior coraggio nel tagliare recitativi e arie minori, ovvero per rendere più evidenti le parti vive ed emozionanti di quest’opera. Ma si sa che nel mondo dell’opera seria, questo è ormai diventato un tabù per uno scrupolo filologico piuttosto campato in aria, dato che se si vuol essere storicamente rigorosi, all’epoca i tagli il pubblico se li faceva da solo, facendosi gli affari propri per gran parte della serata e prestando attenzione solo quando era attirato dal suono della voce della prima donna o del primo castrato.
Sempre più, oggi il compito del regista moderno di fronte a un genere problematico per le aspettative moderne come è quello dell’opera seria, non è quello di cercare se possibile un’unità drammatica tra le arie, sfoltendo il superfluo, ma offrire tutto quello che il compositore ha scritto e cercare di movimentarlo, inventando per ogni aria una scenetta a sé stante. In questo senso, la regìa di Claus Guth è stata esemplare e la sua fantasia assai feconda nel trasformare tutti i momenti di solitaria riflessione dei cantanti in immaginari dialoghi con ombre e altri personaggi presenti in scena o immaginati. A tutto questo movimento, va aggiunto quello della scena rotante su se stessa che creava ambienti sempre diversi a sipario aperto, e persino durante uno stesso momento musicale, con virtuosismo quasi cinematografico.
L’impressione però è che, se non fosse stato per l’esuberante attività di cui pullula la partitura di Mozart, assecondata a dovere dalla direzione entusiasta di Ivor Bolton, tutto questo dinamismo avrebbe finito per girare a vuoto. A volte risulterebbe infatti più efficace accettare la poetica dell’opera seria per quello che è, invece di voler drammatizzare tutto, in ogni istante. Per esempio il personaggio di Silla, come tanti altri sovrani dell’opera seria, è un’allegoria, un archetipo: farne invece, come ha fatto Guth, un nevrotico inquieto e alcolizzato, svuota l’opera di un punto fisso intorno a cui gli altri personaggi più umani possono affannarsi e appassionarsi senza il rischio di trasformare la drammaturgia dell’opera in un vortice centrifugo. Lo stesso dicasi della volontà di operare una scissione critica tra la musica e la scena, di cui così spesso si abusa: d’accordo che oggi l’antichità greco-romana non emana più quel prestigio che ancora ai tempi di Mozart conferiva ai personaggi dell’opera seria un fascino e un’aura esemplari, ma si vorrebbe capire che cosa nella partitura così vibrante del Lucio Silla abbia suggerito agli scenografi di ambientare la vicenda tra latrine piastrellate di bianco, sordidi vicoli ciechi e tunnel di cemento armato. Altrettanto incomprensibile, la relazione tra lo splendente finale trionfale e la trovata del regista di far credere che l’improvvisa conversione di Silla dalla crudeltà alla clemenza sia solo un macabro scherzo, di cui i sudditi si rendono conto in un’atmosfera di raggelata tensione.
Comunque, il successo di un’opera così poggia tutto sulle spalle dei cantanti, e in questo caso il cast è stato nel complesso all’altezza della situazione. Patricia Petibon ha entusiasmato il pubblico nei panni di Giunia, con un’interpretazione sopra le righe giustificata dal tono esaltato che la fantasia eccitata dell’adolescente Mozart sentì per le arie di questa tragica eroina. Anche se a essere onesti, dotata di un indubbio magnetismo d’attrice, s’è lasciata un po’ trascinare dando vita a una protagonista in perenne stato di sonnambulismo confusionale. Questi esagerati manierismi hanno avuto se non altro il merito di distrarre dalle incongruenze della sua prestazione vocale, caratterizzata, come avviene in altre star dell’opera barocca-settecentesca da suoni poco timbrati, parole confuse, attacchi in pianissimo calanti, colorature improbabili e poco omogenee, una tendenza a rallentandi estenuati e a scarti di dinamica e tempo fuori stile. Tutto ciò, invece, si notava alquanto nei pezzi d’assieme in cui una strepitosa Silvia Tro Santafé (Cecilio) dava dimostrazione di autentico belcanto. Senza dubbio la migliore in scena, il mezzosoprano valenziano ha dominato in modo impeccabile le arditezze della scrittura vocale volute da Mozart: salti di registro, ripetizioni in pianissimo, espressività del testo, tutto usciva convincente e autentico. Brave anche Inga Kalna e Maria José Moreno, rispettivamente Cinna e Celia, che innervosite forse all’inizio dalla presenza di telecamere, hanno acquistato via via più scioltezza e sicurezza. Tra i due tenori, Kurt Streit nel ruolo di Silla ha brillato per la spigliatezza d’attore e per la chiarezza della dizione, e Kenneth Tarver, ha dato prova di notevole proprietà vocale, dimostrando una volta di più quanto la scuola statunitense sia un punto di riferimento per la tecnica belcantistica.