di Giampiero Cane
Nella cultura musicale europea, quel vasto campo di pratiche che ha dato vita alla così detta musica da camera costituisce l’insieme forse il più sofisticato dell’esperienza musicale nel suo insieme. In esso non ha rilievo o quasi la mostra e il vanto per le capacità solistiche, per il virtuosismo in sé e per sé. L’idea che guida non fa che si suoni per un pubblico, ma che lo si faccia piuttosto tra intimi, col fine del gioco e della qualità. Naturalmente, però, nulla traccia confini così precisi, dei quali del resto non c’è bisogno alcuno, che includano gli intrattenimenti bachiani, le sciocchezzuole galanti mozartiane e il tragico beethoveniano dell’op. 130. I primi due potrebbero stare in un’idea di Pop d’Antan, l’altro, se gli cerchiamo un genere non può essere che quello costituito da esso stesso e da poche cose tra Schumann e Ligeti.
Il jazz è un continuo trasformarsi del manierismo dell’esecuzione. Non è una musica con regole particolari quanto al comporre, anche se nei suoi cent’anni c’è qualcosa che nella creatività musicale s’è mosso in questo senso. Ma è un parvenza, così come tale è il suonare in insiemi che per formato riprendono l’idea cameristica. Il mondo del jazz ha un po’ di sue regolette che costituiscono le particolari differenze. Per esempio iI pianoforte leader chiama il trio, un’ancia o un ottone leader chiamano il quartetto. Le cose hanno avuto principio nell’economia. Delle qualità di star si favoleggiò presto nel Sud sicché gli strumentisti si videro immersi da ingaggi per lo più brevissimi per tutte le cittadine della Louisiana, del Mississippi, su verso Memphis. Erano solisti che non aveva un gruppo, ma con un giorno d’anticipo si metteva in strada un loro collaboratore che doveva scegliere tra i dilettanti nel territorio chi meglio avrebbe potuto reggere il compito di far da spalla all’astro nascente.
Un po’ di selezione basata sulla conoscenza dei temi di successo e sulla capacità di usare i manierismi sonori che erano propri di New Orleans e di un Armstrong e la performance poi coincideva con la prima e unica prova. Il giorno dopo, nel pomeriggio quell’Armstrong sarebbe arrivato dov’era già il selezionatore della band serale e con una mezzoretta di prova un altro concerto era pronto. Non è certo il mondo di Gesualdo , della corte estense o di una qualche abazia.
La pratica di far accompagnare solisti di grido da un qualche loro fan ben conosciuto nel jazz club della città è proseguita a lungo, né si può dire del tutto cessata, però nel tempo, nel mondo del jazz qualcosa è successo e soprattutto durante gli anni Cinquanta l’idea di dare vita a collaborazioni durature s’affermò, anche se stranamente erano i new sound a dettar legge. Tanto per capire l’impasto di un quintetto attorno a 2 tromboni leader, Jay Jay Johnson e Kay Winding, o attorno a sax baritono e tromba come nel caso di Mulligan e Baker, oppure il suono di una tuba solista, come fu con Ray Draper. Coi new sound ne saltarono fuori di tutti i colori e fu quasi una specializzazione per Stan Kenton
A distanza di qualche secolo da quando s’era manifestato quel piacere di suonare in compagnia, più per se stessi, a quanto pare a volte, che non in scena per un pubblico, quale era stato in Europa nei secoli già da un po’ nel passato, anche se non ancora dimenticato, come le buone maniere, ormai già nostalgia, nel mondo bruto al di là dell’Atlantico dove frusta e ricchezza da un po’ di erano sposati per pianificare con la loro unione il matrimonio del capitalismo e della democrazia, un nuovo piacere del suonare insieme, per sé e per un pubblico di accoliti che sta formandosi, viene a dar vita a un nuovo camerismo. Trio, quartetto e quintetto ne sono i figli.
Ma scovare nei due mondi il loro specchiarsi è un’impresa. Le immagini più che confermare ingannano, ma le une e le altre hanno le loro ragioni e distribuiscono compiaciuta pienezza. Basta anche poca attenzione per accorgersi che ben poca somiglianza, se non apparente, lega e rende simili le due immagini. Per quel poco che conosciamo, possiamo avanzare l’ipotesi che all’inizio del Novecento qualcosa di buona qualità cameristica fosse presente nella musicalità dei migliori musicisti di colore del Sud. Non abbiamo troppi documenti in merito, ma qualcosa di registrato da Armstrong insieme a Buck Washington ha il carattere di un jazz non da sala da ballo. Allora nel Sud si ballava tutto, come del resto nel Settecento europeo tolta quella musica che doveva sorprendere per i propri apparati. C’era il gusto dell’ascolto, dell’orchestra, ma gavotte, minuetti, sarabande erano consegnate al coinvolgimento del ballo. Era un agire rituale come nella scena degli zombie in Per favore, non mordermi sul collo.
Negli anni Cinquanta ci furono quartetti di altissima qualità, e non esclusivamente jazzistica: il Modern Jazz Quartet, un vero incanto nato dai sogni galanti di John Lewis che ne era il pianista e l’ideatore, col vibrafono sognante e paradisiaco di Milt Jackson, col contrabbasso di Percy Heath e la batteria di Kenny Clarke. Miles Davis, anima più irrequieta, ne ebbe diverse di queste combination con Thelonious Monk e con John Coltrane, ma Davis non riuscì ad approfittarne. Anche Charles Mingus,, che ebbe anche una sua discografica, la Debut, è portato al comporre, a sollevarsi dal clima del jazz club, dalla routine richiesta dai fan, ma anche lui ha un carattere alquanto difficile e i sentieri che deve percorrere non sono agevoli e soffici come quelli del MJQ.
Nel jazz il desiderio di esprimersi quale autore non trova la condizione migliore. Più che la logica di un pensiero musicale piace la performance, la messinscena del suonare, l’eccedere nel gesto, il clamore dell’effetto. Armstrong è ricordato più per il suo cantare sillabando che per le musiche d’insieme col suo Hot Five del 1928. Di Bollani, come di Fas Waller piace più la “clowneria” che la perizia pianistica. La qualità solistica suscita più calore quand’è accumulazione che quando è svolgimento analitico. Le ventisette frasi solistiche con cui Paul Gonsalves lega Crescendo e Diminuendo in Blue a Newport non erano previste nella scaletta dello show, Ellington aveva preparato materiale per un ponte di un paio di frasi e non più. L’orchestra ripete per un paio di volte il poco scritto da Duke, poi l’insieme tace e Gonsalves si ritrova “sostenuto”, si fa per dire, solo dalla batteria.
Capita qualcosa di simile anche in una vecchia collaborazione di Monk con Miles Davis. Quando suona il trombettista e leader, il pianista tace; quando Monk prende la scena, tace Davis, ma Monk non ha nulla dello showman e nel Bag’s Groove che l’ensemble sta suonando, dopo un breve assolo di Jackson, lavorando su alcuni frammenti costruisce la più sognante e intesa pagina pianistica della storia del jazz, sembra che una riflessione leopardiana attraversi un sonoro che ha la rarefatta concentrazione del Webern più sorprendente. Comunque non credo che Monk conoscesse Webern e tantomeno Leopardi. Probabilmente suona per sé, cosa rara nello show jazzistico.
Nel jazz, questo suonare per sé, per evolvere e arricchirsi si afferma come scopo della AACM (Association for Advanccement of Creative Musician) creata da Richard Abrams nel 1965 a Chicago nella quale matureranno le migliori figure del jazz dagli anni Settanta. L’orchestra di Abrams si chiamava semplicemente experimental ed era costituita da organico fluido, cui si partecipava liberamente, che non aveva un book di musiche sue, che come pubblico aveva i medesimo musicisti dell’AACM.
Venne a Verona una ventina d’anni fa e nel teatro al’aperto, di là dall’Adige suonò con la sua consueta libertà. Mentre il pubblico sgattaiolava via, pochi si godevano l’informale come partecipazione collettiva. Ne scrissi l’elogio su il manifesto d’allora e mi sentii chiedere se veramente quella musica m’era piaciuta, se non m’aveva annoiato e danneggiato irreparabilmente gi zebedei.
Nel frattempo, nella seconda metà degli anni Sessanta nella scuola dell’AACM era nato un quartetto fenomenale, che aveva il compito di mostrare cosa si potesse lavorando liberi dalle pressioni del jazz quale mercato. Era l’Art Ensemble of Chicago con Lester Bowie, Joseph Jarman. Malachi Favours e il batterista Philip Wilson, presto sostituito da Don Moye. La sua base divenne immediatamente Parigi, ma in poco tempo non ci fu “piazza” jazzistica che non lo accogliesse. Non so se il loro concerto nelle acciaierie di Terni, nel 1972, sia stato il primo italiano, ma fu quello in cui per la prima volta li ascoltai dal vivo, li vidi e parlai un poco con loro. In seguito le occasioni si sono moltiplicate, anche perché furono spesso a Roma.
Ora, il quartetto, per l’occasione quintetto, ha avuto una serata nel calendario dell’Ariosto a Reggio Emilia. C’erano del vecchio AEoC le ance di Roscoe Mitchell e la batteria di Don Moye; Hugh Ragin suonava alcuni ottoni, tutti trombe, da una piccola a un flicorno, Junius Paul maneggiava un contrabbasso e Dudù Kouate un po’ di quell’insieme di oggetti sonori che sono lo strumentario dei percussionisti. Mi dicono che è originario di Dakar e che vive a Bergamo.
È il musicista che nel concerto reggiano ha goduto dei più chiari segni di simpatia. Si capisce perché se suona con gli Odwalla e se ha una buona dimestichezza con l’italiano. Roscoe Mitchell che ha 77 anni, e li porta benissimo, è uno strumentista pieno di energia, capace di un tour de force per cui si avventura in una mezzora o quasi di respirazione circolare. Credo ne abbia appreso le basi in Sardegna, frequentando il festival di Sant’Anna Arresi, il più coinvolgente tra quelli che ho frequentato in quell’isola. Ovvio che sia più una mostra di energia sonora che non un elaborato musicale studiato fuorché nel flusso ritmico.
Quarant’anni fa questi flussi furiosi eccitavano. Adesso il pubblico è scarso e si diverte di più con performance più soft. Comunque direi che l’Art Ensemble non c’è più. Anche Don Moye che aveva una batteria selvaggiamente politica, che è più giovane di Mitchell, avendo 71 anni, sembra affidarsi a vecchi manierismi dei tamburi. E’ ancora fresco però, e sembra allegro, ma gli manca la spinta verso la rivoluzione.
A questo puntava l’AEoC, ma oggi mancherebbero persino le ghigliottine, lasciano perdere le idee. Né Hugh Ragin, né Julius Paul sembrano averne di significativamente appuntite: suonano assieme a due vecchi sacerdoti del free, un pensiero musicale che vive ospedalizzato e non si sa se potrà riprendersi e reagire a tutti i virus che l’assaltano da ogni parte. Ormai tristezza e noia recano l’ore e proprio non si s se ci sarà mai una scatto d’orgoglio o se tutto ristagnerà nella palude di una buona educazione conforme a vite insipide.
Giampiero Cane