di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
Il Teatro Comunale di Bologna non è lo Sferisterio di Macerata. Qui si tratta di uno spazio aperto, che in alto ha per architrave il cielo e che ha una scena tanto sterminata in larghezza quanto limitata in profondità. Là si tratta di uno spazio chiuso, con un boccascena che fissa stretti confini alla vista e con un palcoscenico che, al contrario, è assai più profondo di quanto la sala bibienesca lascerebbe immaginare. Creato per Macerata nel 2014 e ripreso per otto recite a Bologna dal 12 al 22 novembre, l’allestimento dell’Aida di Verdi qui in oggetto è stato dunque energicamente rielaborato. Non muta l’idea teatrale del regista Francesco Micheli, il quale punta a stilizzare, assottigliare, umanizzare: sopravvive un repertorio gestuale talvolta calibrato sul maggior spazio areniano, ma la visione drammaturgica risulta qui più vicina, chiara, matura, dunque meglio leggibile.
Il praticabile disegnato da Edoardo Sanchi in forma di laptop entra a malapena nelle nuove dimensioni: all’aperto era un ben diluito fulcro dell’azione, al chiuso torreggia invece minaccioso sugli attori; non potendo più distribuire le masse alla sua destra e alla sua sinistra, le accoglie ora nell’area antistante o le fa migrare tra il pubblico in platea. Tal quale è il progetto nei disegni di Francesca Ballarini: l’ingresso di un personaggio, il rilievo di una parola o l’evocazione di un affetto si traduce con puntuale pleonasmo in una didascalia o un’immagine proiettata sul fondo. E tal quale è anche la sobria punta di fantascienza nei costumi di Silvia Aymonino e nelle coreografie di Monica Casadei, mentre le luci di Fabio Barettin trovano ora meglio che mai, indisturbate dai fasci luminosi esterni al teatro, le precise note di dissolvenza, avvicendamento e atmosfera.
Anche il concertatore Frédéric Chaslin vorrebbe puntare all’essenza della partitura, privilegiandone il lato intimistico e scrostandola da effetti trionfali: gli riesce lo smantellamento della zavorra di tradizione, non l’edificazione di una lettura dotta e avvincente. Vero è che la qualità tecnica di orchestra e coro felsinei rimane fuori discussione, e che il direttore deve adeguarsi a soccorrere compagnie di canto qui e là deficitarie. Entrambe contemplano il Re di Luca Dall’Amico, più dubbioso che autoritario, il vivido Messaggero di Cristiano Olivieri e la velata Sacerdotessa di Beth Hagermann. Poi iniziano le distinzioni. Al Radamès di Antonello Palombi, generoso ma poco cauto nel dosare le energie lungo la serata e nel rischiare la smorzatura del Si bemolle, corrisponde per esempio quello di Sergio Escobar, monotono nell’accento ma accattivante per timbro e squillo.
Monica Zanettin, a sua volta, tra molte recite all’Arena di Verona ha assestato un’Aida poco sfumata ma onesta, solida, franca: anche qui, la fronteggia un’Ana Lucrecia García più sontuosa nel materiale ma – spiace – precaria per tecnica e sommaria per porgere. La seconda compagnia supera infine la prima, per interesse complessivo, non tanto nell’Amonasro di Stefano Meo in alternanza con Dario Solari – la grana è grossa in ambedue, ma pari anche l’impegno scenico – quanto nelle parti di Ramfis e Amneris. Il sacerdote tocca a un Enrico Iori ritrovato scarno di prestanza vocale; gli va preferito quello, smaltato e risonante, di Antonio Di Matteo. La figlia del faraone tocca invece a una Nino Surguladze che vorrebbe incrementare i decibel riesumando decaduti eccessi veristi: con mezzi sani, tecnica schietta e pronuncia accurata, ecco a darle una lezione Cristina Melis.
La scenografia è minimalista nel senso pieno della parola perché semplicemente … non esiste, sostituita da figure proiettate sullo sfondo che dovrebbero ricordare gli affreschi egizi e in altri casi sottolineare la temperie dei protagonisti. Risultato men che modesto: forse l‘unico vantaggio è che un teatro economicamente disastrato ha speso poco. Il coro nel primo atto canta avendo davanti – senza alcuna ragione – un tablet: un dono di Maroni rimasto dal referendum tenuto recentemente in Lombardia? Una nota di assoluto biasimo per uno scadentissimo balletto del primo atto con i soldati di Star Wars (ma che c‘entrano?) così che ci si aspetta di vedere entrare da un momento all’altro Obi One Kenobi e Dart Feller. Radames avrebbe allora dovuto essere agghindato come come Sky Walker con tanto di spada luminosa. Protagonisti e coro che entrano dalla platea: un espediente mai visto prima ….Nella scena finale (come in altre scene) sul proscenio si presenta un tizio con tablet (ancora una volta!!) che non si capisce cosa c‘entri (forse passava di lì per caso). Un narratore silente o un portoghese? Insomma una regia e una scenografia velleitarie e scadenti.