di Santi Calabro foto © Rosellina Garbo
L’italiana in Algeri è un’opera da maneggiare con cura, perché il livello della musica di Rossini è molto alto ma l’azione già di suo irreale si dispiega in una drammaturgia dall’equilibrio instabile. Che una donna destinata a un serraglio arabo riesca a darla a bere al Bey assatanato, a liberare gli altri prigionieri italiani, a imbarcare tutti per tornare in Italia, incluso il suo innamorato ritrovato – anche lui in condizione di schiavitù presso il Bey –, e persino a propiziare una riconciliazione tra la moglie araba e il consorte in cerca di diversivi, sarebbe ancora il meno. Più problematico il fatto che basti qualche espediente da poco per innescare una chiusura del primo atto con un sontuoso ma sproporzionato finale a imbroglio, o che la conclusione dell’opera ricorra a una banale morale sul potere e l’abilità delle donne: debolezze non registrabili in altri finali rossiniani, dove i rapporti tra premesse ed esiti appaiono ben più conseguenti. In mezzo tanti snodi minori e ben proporzionati, su registri diversi che però non è sempre facile cucire con un respiro di insieme.
Per gli interpreti è una bella sfida, e nella produzione in scena al Massimo di Palermo, meritatamente applaudita, le idee non mancano. Gabriele Ferro dirige cercando un’unità nei rapporti musicali, con una concertazione ben calibrata e una scelta dei tempi a volte non usuale. Alcune sue estremizzazioni agogiche, soprattutto nel senso della velocità, ci convincerebbero in astratto, ma danno qualche problema ai cantanti, e le scollature ritmiche non mancano. Maurizio Scaparro, il regista, riprendendo un allestimento di qualche anno fa con le scene di Emanuele Luzzati e i costumi di Santuzza Calì, ritiene di poter amalgamare l’intensificazione dell’elemento comico con l’eleganza della scena – dove il fondale azzurro, con il mare e il cielo, promette partenza e libertà, mentre le grate da serraglio che fungono da quinte mobili offrono e negano la vista della salvezza -.
Effettivamente durante la rappresentazione il pubblico ride e si diverte, ma qualche degenerazione in gestualità farsesca è discutibile quanto a buon gusto e non passa indenne sui meccanismi dell’opera. Lasciare che Simone Alaimo (Mustafà) interpreti il suo “bumbum” alla fine del primo atto con tono e gesti da dominatore festoso è un controsenso: l’unico veramente imbrogliato in quel finale è lui, la confusione degli altri è di per sé meno comprensibile, e “bumbum” è il rumore della testa che scoppia, non la mimesi dei giochi pirotecnici. Se Mustafà appare così babbeo a metà dell’opera, la macchinazione finale dei “Pappataci” diventa addirittura esagerata! Anche gli altri cantanti ancheggiano, gesticolano e accennano a ballare con intensità e frequenza esagerate. Quanto alle voci, il livello complessivo è discreto. Alaimo ha ancora tanta personalità nonostante una certa usura. Marianna Pizzolato (Isabella) canta bene, con le giuste intenzioni, anche se manca la seduzione della prima donna nel registro acuto. Pietro Adaini è un Lindoro vigoroso, con il colore giusto, ma ancora giovane: per ora c’è la materia, non le nuances. La prova di Vincenzo Taormina nel ruolo di Taddeo è la più convincente, per verve, efficienza, eleganza. Completano decorosamente il cast Maria Francesca Mazzara (Elvira), Isabel De Paoli (Zulma), Giovanni Romeo (Haly), Pietro Adaini (Lindoro).