di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
Grandi erano, ragionevolmente, le aspettative per il concerto della Mariinskij Orchestra, previsto per sabato 17 febbraio 2018, a Torino: Auditorium ‘Agnelli’ di via Nizza, per la serie di Lingotto Musica con la direzione del ‘mago’ Valery Gergiev. Aspettative che non sono certo andate deluse. Di una memorabile serata si è infatti trattato. Che ci si sarebbe portati a casa un mare di emozioni ed una quantità indicibile di ricordi musicali lo si è compreso fin dai primi istanti di un programma davvero ben confezionato. Programma, ça va sans dire, per intero sul versante russo. E si sa, per quanto banale possa apparire la riflessione, che le orchestre russe quando affrontano i ‘propri autori’ hanno davvero una marcia in più.
E dunque in apertura subito si sono materializzate davanti ai nostri occhi le fantasmagoriche visioni e le magiche atmosfere della rimskijana Favola dello Zar Saltan ovvero la Suite op. 57 da tale opera che, confezionata nel 1903, comprende Addio e partenza dello zar (dall’atto I), poi La zarina e suo figlio in una botte a galla sul mare (dall’atto II) e per finire Le tre meraviglie (dall’atto IV): tre dissimili pannelli introdotti invariabilmente da una luminescente fanfara dagli inconfondibili colori. E subito Gergiev ha sbrigliato l’orchestra rivelandone ancora una volta le enormi potenzialità. Un tripudio di ritmi screziati e policrome, smaglianti atmosfere, specie nei due scintillanti pannelli estremi, laddove quello centrale delinea le vastità marine, con gli strumenti trattati singolarmente, quasi relitti galleggianti sull’acqua; e qui le reminiscenze, o più propriamente le corrispondenze rispetto a Shéhérazade sono davvero palpabili, quasi un gioco di ammiccamenti, di rimandi e di pseudo citazioni (armoniche e soprattutto timbriche) di evidente e palmare chiarezza per chi conosca entrambe le partiture. E c’è anche spazio per le allusioni a quei personaggi minori e popolari, i saltimbanchi, i cosiddetti skamaroki, che contribuiscono col loro chiacchiericcio a far stagliare con mirifica pregnanza gli aristocratici protagonisti. Come protagonista assoluto è il mare, elemento dinanzi al quale sempre la fantasia di Rimskij – che fu ufficiale di marina e per lunghi anni fece l’ispettore delle bande della flotta del Baltico – decolla in maniera singolare.
Ammiratissima la performance dell’orchestra che ha saputo delineare lussureggianti atmosfere timbriche culminanti nell’immane e irresistibile apoteosi dell’epilogo ed illustrare altresì la modernità già di natura novecentesca della partitura (e pazienza per un piccolo, davvero inspiegabile incidente di percorso nelle primissime battute occorso agli ottoni, cose che succedono anche alle orchestre di levatura somma e che nulla tolgono alla grandezza della compagine, facendola anzi apparire più umana). E proprio a ribadire la matrice novecentesca della partitura prescelta per l’esordio, Gergiev – quasi una lezione di stile, una dichiarazione di intenti volta ad annodare le fila storico-musicologiche – ha inteso chiudere la serata con la parte finale dello stravinskijano Uccello di fuoco. Come a dire, apertura nel segno di Rimskij e chiusura nel nome di colui che fu il più geniale allievo del grande orchestratore. E davvero in quel bis si è ammirata una delle più incredibili interpretazioni cui si possa assistere. Una lettura di indicibile bellezza, dai pianissimi quasi inudibili e dalla pacatezza dell’attacco sino allo sfolgorio incandescente dell’ultimissima parte.
In programma anche il raro (e meraviglioso) Lago incantato di Liadov, toccante Leggenda per orchestra op. 62 in cui Gergiev ha avuto modo di far toccare con mano come si possa trattare una vasta compagine con la delicatezza di un complesso cameristico, quasi miniaturizzato. E allora che bella la curva espressiva conferita a questa pur breve, ma assai intensa pagina; quanta rarefazione nei timbri e nelle armonie squisitamente russe. Una gioia per le orecchie, per il cuore e per la mente.
Da ultimo il Rachmaninov delle Danze Sinfoniche op. 45, un trittico di notevole modernità, soprattutto un trittico lontano dal desiderio di catturare il pubblico ad ogni costo, un Rachmaninov molto diverso dalla dimensione cinematografica, ‘americana’ che talora (riduttivamente) si è soliti attribuirgli. E allora ecco l’incisività ritmica della prima, energica ed ispida, quasi il contraltare di certo Šostakovič. Ma non mancano le striature misteriose e le solipsistiche atmosfere, come il riflesso di un uomo che provava disagio (e di vero e proprio disagio psichico si trattò) dinanzi ad un mondo ormai scomparso. Ecco dunque una partitura non facile, di non cordiale comunicativa, che pure raggiunge vertici assoluti di bellezza. Di grande fascino una zona centrale rarefatta, struggente e raggelata, poi le atmosfere sghembe di uno stralunato valzer e da ultimo ‘estrema’ sezione, vero tour de force per l’intera orchestra con le citazioni del Dies Irae e gli effluvi melodici, le lugubri atmosfere di certi passi e la tellurica vitalità di altri passaggi.
Ancora Rachmaninov campeggiava a centro serata e si trattava del celeberrimo Secondo concerto per pianoforte e orchestra, solista la moscovita Varvara Nepomnyashchaya, trentaseienne dal curriculum prestigioso e dalle insigni collaborazioni internazionali. In realtà ha convinto solo in parte. Fin dai primi tre accordi, da quel memorabile attacco che occorre affrontare graduando con millimetrica sensibilità il tocco, si è compreso che la sua performance non sarebbe stata indimenticabile. Appariva molto tesa, eccessivamente tesa anche se poi si è in parte (ma solo in parte) distesa. Mancava del tutto la poesia, mancava il magnetismo che occorre saper sprigionare per tenere il pubblico incatenato alla poltrona. Sonorità troppo aggressive e per contro cantabili non così ben timbrati come ci si aspetterebbe. Ed ecco che il sublime tema ‘cinematografico’ del primo tempo è scivolato via un po’ così, senza lasciare traccia. Non sempre poi gli equilibri fonici con l’orchestra parevano ben focalizzati e non tutto ritmicamente era in asse. A mancare anche quella souplesse, quell’elasticità che sono necessarie per restituire al bel Concerto tutta la sua fragranza. Se nel secondo tempo è venuta meno anche la grandiosità degli spazi naturalistici che Rachmaninov ha saputo delineare, nel finale mancava l’ironia, mancava quella dimensione di leggerezza e di smagato divertissement che è invece imprescindibile. Tecnica sì (anche se qualche papera è emersa vistosamente in una pagina pur di immane difficoltà) ma poca personalità interpretativa. Peccato, un’occasione perduta. Bis nel segno di Prokof’ev (il primo dei pianistici Studi op. 2) e qui la Nepomnyashchaya è parsa più a suo agio, sbaragliando dinanzi ad un pianismo percussivo concepito da un musicista (e pianista egli stesso) dalle dita d’acciaio. Successo di pubblico che, a onor del vero, l’ha applaudita a lungo con calore ed ammirazione non meno dell’orchestra alla quale è andato un vero e proprio trionfo, come pure – ovviamente – al fuoriclasse Gergiev che è sempre un piacere ‘incontrare’ nel Gotha della grande musica.