di Giampiero Cane
Il mondo della musica piange in questi giorni la scomparsa di Cecil Taylor. Nato a New York il 25 marzo del 1929, deceduto il 5 aprile, fu artista creativo di eccellenti qualità, pianista impressionante per tecnica e intelligenza musicale, performer infinito sulla scena, capace di dominare il palcoscenico di un grande teatro giocando con la voce e coi gesti e svolgendo misteriosi riti di presa di possesso dello strumento e di recitazione del ruolo.
Al piccolo mondo del jazz non è piaciuto appieno che raramente, cosa non sorprendente perché Cecil Percival Taylor era un genio non uno showman della tastiera.
La sua arte si manifestò improvvisa e già matura negli anni Cinquanta quando, lasciato il New England Conservatory, cominciò ad affrontare la carriera che ne rese celebre il nome nelle sale concertistiche di tutto il mondo. Era un uomo piccolo, dagli occhi vivacissimi, amava la danza e nelle sue performance pianistiche, l’aveva immessa simulando che la tastiera fosse la scena dei ballerini e le sue mani questi ultimi. I fondamenti musicali che s’era scelti erano nella musica africana quale trasformatasi ed evolutasi nell’America settentrionale, per farla breve nel pianoforte della storia del jazz, ma c’era anche Bartok, forse l’unico musicista europeo che fosse entrato in qualche modo nella sua anima.
Era stato scelto però non per seguire le tracce dl grande ungherese, ma per proseguire la traccia di un altro grande musicisti nero americano, Thelonious Monk che probabilmente non conosceva affatto il tran silvano, ma che per conto proprio era arrivato a un’essenzialità quale era stata fino allora di rari musicisti, Satie, Rudyard, Ruggles per esempio.
Anche Monk era stato più un artista che non un tecnico della tastiera. Amava riflettere sulla musica, tenderla e tenere la tensione quanto poteva. È un musicista piuttosto vicino a Webern, se si va all’anima delle cose anziché alla grammatica. In un’epoca nella quale andava di moda il più effervescente dei virtuosismi, quello dei musicisti veloci, iperproduttivi, dei flussi torrenziali che avrebbero portato a Sonny Rollins e a John Coltrane, Monk procedeva con passo lento e volutamente marcato. Anche la musica di Taylor fu poi abbastanza lenta, anche se paradossalmente, poiché dietro l’agitarsi irrefrenabile delle mani ballerine, l’idea non amava esplodere in fuochi d’artificio, ma distendersi con logica intima.
Questo fu forse il motivo per cui nel mondo del jazz, molto superficiale e amante del più smaccato virtuosismo tecnico, egli non ebbe quell’unanime riconoscimento che andava magari invece a un Horace Silver, a un Oscar Peterson, ottimi musicisti direi, ma fatti di “cose fatte”.
In maniera più sofisticata di come si manifestò in Duke Ellington, Cecil Taylor sentiva una grande attrazione per la partecipazione alla musica e la leggerezza del ballo, ma mentre il Duca amava vedere quelli che in pista sgambettavano con la sua musica, Taylor era appassionato piuttosto dell’artata leggerezza dei ballerini classici.
Terminato uno dei suoi concerti, se ne andava piuttosto in una sala da ballo e l’, con le sue snakers passava quel che restava della serata ballando da sé e per sé. A Bologna spesso è stato visto il una sala che negli anni Sessanta c’era all’inizio di via Zamboni, un ammezzato sottoterra, dove sfogava il suo desiderio di messinscena, quello che il pianoforte soddisfa solo minimamente.
Di contro non era molto interessato ai temi “sentimentali”, musicalmente all’aspetto melodico, al languore. Era piuttosto attratto dai temi dei costruttori, dalle forme complesse e articolate (fosse nato tedesco, rebus sic stantibus, è probabile che avrebbe proseguito una via mahleriana, non sarebbe andato a Darmstadt, credo, ma avrebbe potuto intendersi con Donatoni).
Queste naturalmente sono fantasie che riguardano me, più che lui. A lui piaceva Santiago Caltrava che a me interessa assai poco, le sue strutture, che sono più belle da guardare di come non sia una partitura musicale. Lo disse alcuni anni fa, in una conversazione col pubblico di AngelicA, aggiungendo “ha-ha-ha, una partitura musicale, con i suoi pallini con i suoi pallini e il suo piccolo tempo, da-da-da, come se la musica esistesse dentro le note, ah-ah, la musica non esiste dentro le note. Se voi date alla vostra fisicità il compito di leggere le note, note che magari sono lì da cinquecento anni, invece di creare il vostro sistema personale di notazione, vuol dire che dividete la vostra concentrazione e la vostra energia.
«Dovrebbe essere –continuava Taylor- come una danza, dovrebbe avere un’essenza spirituale con la musica che viene da dentro, capite, non potete crearla dalla matematica, si sente sempre dire questa cosa della relazione tra la musica e la matematica, io non vedo il nesso, insomma».
Di fatto, Taylor, che spesso mette tra sé e il pianoforte uno spazio che noi non percepiamo se non come da attraversare, percorrere, lo affronta come una componente misteriosa, lo percorre quasi furtivamente, emettendo sonorità che richiamano il teatro orientale, avvicinandosi allo strumento quasi di nascosto, e alla fine, quando ha preso posizione, dà il via a una prova pianistica sempre sorprendente, con musiche organizzate in maniera da non lasciare un attimo di tregua alla tensione. Cewcil Taylor non suona per il pubblico, ma suona per sé, il più esigente e severo dei suoi ascoltatori.
Anni fa quando, con Badini alla gestione del Comunale, altri tempi purtroppo, il teatro s’era fatto carico di una iniziativa che si chiamava, direi, Jazz nei Quartieri, Taylor fu per più di una settimana artista residente in città: ogni sera era impegnato in una sede semiperiferica, non necessariamente votata alla musica e ci fossero 5 persone o 50 egli era sempre egualmente impegnato a trar fuori dal pianoforte tutto quel che poteva. Ogni giorno lo strumento andava riaccordato.
Ciò a differenza di quel che avveniva ieri, quando a Fabrizio Pennisi, regolarmente invitato, fu fatto trovare uno strumento che aveva un’intonazione del tutto approssimativa. Quando gli chiesi come mai avesse accettato “quel cesso di strumento”, mi disse che alle sue rimostranze la direzione aveva risposto dicendo che il contratto non prevedeva l’accordatore. E bene gli andò fortunatamente, dico, perché non credo che il contratto prevedesse l’uso del seggiolino, il quale invece c’era.
Taylor era felice di avere un pianoforte abbastanza a posto, ore per potersi esercitare in una sala del teatro, senza pubblico, e il concerto serale, quasi senza pubblico, spesso, anche questo.
Poi incontrava me, che facendo due chiacchiere l’accompagnavo dove voleva andare, cioè spesso in un night, non c’erano ancora le discoteche, ma c’erano dei night che non erano per incontrarvi delle escort. Una sera che lo trascinammo a cena nel ristorante dei c.d. cantautori, cioè da Vito, non toccò cibo, ma alla fine prese un Pick me up, traduzione, tanto per capirsi di Tirami su