Ripresa del capolavoro verdiano al Teatro Comunale, nell’allestimento di Gallione lì creato un decennio fa. Soprende la direzione di Yurkevych, pudica e nostalgica; eccellenze nel comparto vocale: Auyanet, Marianelli, Pertusi e Pop
di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
Dieci stagioni artistiche or sono, il Teatro Comunale di Bologna inaugurava col Simon Boccanegra. Sul podio un giovanissimo Michele Mariotti che, a pochi mesi da un primo incontro – fortuito e fortunato – con le maestranze del teatro, rivelava già la stoffa di direttore musicale de facto. Nuovo era anche l’allestimento con regìa di Giorgio Gallione e scene e costumi di Guido Fiorato: ambedue genovesi, la loro lettura ritraeva con l’immediatezza dell’ovvio i superbi scorci della capitale ligure, bianchi di marmo, neri di ardesia, cerulei di mare, e serviva il capolavoro di Giuseppe Verdi affascinata dai percorsi d’introspezione psicologica al cospetto di personaggi maiuscoli. Un allestimento non geniale ma teso con rara sincerità a illustrare il valore teatrale dell’opera in sé; un allestimento premiato dalle numerose riprese a Reggio nell’Emilia, Palermo, Parma e Nizza. Lo si è ritrovato con piacere in sei nuove recite bolognesi, dal 13 al 19 aprile; ed è dispiaciuta soltanto la drastica riduzione dell’impianto scenico originale (vistosamente sparite, su tutto, le grandiose fughe prospettiche a bande orizzontali).
Spalle persin più forti del previsto anche sul versante musicale. Andriy Yurkevych era noto a chi scrive soprattutto per il suo lavoro nei teatri mitteleuropei, come ubbidente direttore utile al puntuale accompagnamento di primedonne incontrastabili; in questo Simon Boccanegra ha dunque tanto più sorpreso l’espressiva mobilità di tempi e impasti, improntati a pudore e nostalgia, nonché l’attenzione al mestiere dei cantanti senza per questo nulla esimere dalle ragioni della partitura: in coerenza con ciò che intendeva essere, si è trattato di una lettura non virtuosistica e trascinante, ma lirica, attenta, sommessa, stupita essa medesima, a ogni passo, dalla sottigliezza del dettato verdiano. Agli antipodi – tocca dirlo – la difficoltà di dialogo con l’unico elemento debole nella prima compagnia di canto: come protagonista, Dario Solari recherebbe infatti in dote un timbro di pregio che, complice l’emissione, è inoltre permeato da una “lacrima” personale e appropriata; ma la desolante monotonia del fraseggio, nonché una certa approssimazione tecnica, sviliscono una parte che sarebbe romanza da capo a fine.
Lo Jacopo Fiesco di Michele Pertusi è, al contrario, il trionfo unito di mezzi vocali in sfarzoso spolvero (oggi più che mai, il suo canto ha risonanza organistica), esperienza scenica cui non sfugge il dettaglio minimo (ma senza rischio veruno di calligrafismo o iperrealismo) e impareggiabile consapevolezza di stile verdiano (testimoni i recenti debutti nella Jérusalem e nel Don Carlos). Come Amelia Grimaldi, Yolanda Auyanet dimostra di saper cavalcare con agio una strumentazione più poderosa di quella nel repertorio abituale, né per questo cede in consueta naturalezza di porgere: rare asprezze di addicono, anzi, alla maturità di un personaggio femminile già trentenne. Per doti complementari s’impone su tutti, nella seconda compagnia, la sua equivalente Alessandra Marianelli: canto più tenue, timido, radioso, virgineo, giovanile. Compiaciuto e baldanzoso, nel facile e sicuro volo agli acuti, oltre che nel cospicuo volume, risulta il Gabriele Adorno di Stefan Pop, ma a discapito dell’opportuna ricerca di sfumature. Quella, per esempio, messa a punto da Simone Alberghini nell’antagonista Paolo Albiani.
Evviva, ci risiamo! Un Boccanegra formato mini, fortemente ridimensionato rispetto a quello proposto anni addietro basato sulla stessa scenografia con il regista che ingoia in silenzio (“s’ha pure da campa’… “). Siamo alle solite del Comunale di Bologna: raffazzonare, raffazzonare tanto il pubblico è bue e non ricorda. Ma non è così per tutti, mi spiace caro sovrintendente…. Ma prima di esaminare la realizzazione due parole sull’opera (versione 1881, quella con la grande e bellissima scena del consesso capeggiato dal doge). Mi sono permesso nell’intervallo di affermare che il Simon non è nelle mie corde (con qualche consenso e molti dissensi). E provo a spiegarne la ragione. Nella mia concezione l’opera è una sintesi assoluta, massima, di teatro dove si riuniscono, testo, musica e arti figurative. Se una delle tre componenti manca allora l’intera impalcatura crolla. Nel Simon l’azione è quantomeno oscura (e uso un eufemismo) in quanto si basa su presupposti che a un normale spettatore sono giustamente ignoti (perché Adorno e Fiesco vogliono la morte di Boccanegra, tanto per fare un esempio?). Ma poi c’è il problema del testo in sé. L’italiano è da settimo grado in libera su strapiombo. “Estinto io sia ch’or sorride all’alma mia della larva al disparir”. Che vuol dire? Per me larva è strettamente collegato a insetto, coleottero etc.. E come la mettiamo con “l’angue che mi fruga è gonfio di velen (fruga? angue=angoscia?)”. Insomma un pianto. Confrontare questo testo scellerato con quello di un Da Ponte o ancor più di un Wagner – e spesso la traduzione italiana non è in grado di renderne appieno il valore – sarebbe come sparare sulla crocerossa. Ma pare che nella tradizione melodrammatica accettata dal pubblico italiano il testo – suvvia! – non sia così importante, quello che conta è la musica (che oggettivamente nel Boccanegra è molto bella). Così non è nella mia accezione (ribadisco l’opera è sintesi di tre arti) e questo è il motivo del mio dissenso. Che tanto per restare a Verdi in altre opere dello stesso periodo si attenua come nel caso del Macbeth, dell’Otello e soprattutto del Don Carlo (capolavoro assoluto, anche se Carlo V che esce dalla tomba per salvare Don Carlo fa sbellicare dalle risate come concorrente del Grand Guignol). Poi naturalmente massimo rispetto per chi la pensa diversamente (ma non ne spiega mai a fondo la ragione!). Ma veniamo a questo Boccanegra (un titolo di cui a mio parere non si sentiva assolutamente il bisogno anche perché recentemente messo in scena alla Scala – e mi rammarico di averlo perso per fare un confronto). Della scenografia – che sarebbe bella se non fosse stata snaturata dai tagli – ho già detto. Il cast è certamente di prim’ordine. Bravo senza se e senza ma il tenore Stefano Pop nella parte di Adorno (anche se per stazza ha probabilmente richiesto un rinforzo del palcoscenico) e lo stesso dicasi di Pertusi (una certezza come Fiesco) e Solari (un Boccanegra perfettamente nella parte). E’ mancato invece più volte il soprano Auyanet che sforza costantemente nelle emissioni più acute e che non pare assolutamente a suo agio nella parte anche da un punto di vista scenico. Nella norma gli altri cantanti. La direzione di Yurkevych è risultata in più parti fiacca anche se questa volta l’orchestra ha evitato quei drammatici errori che altre volte l’hanno piagata (ad esempio nei fiati). Che dire, quindi, in totale? A parte la ridicola clacque che alla fine dello spettacolo ha tentato ancora una volta di urlare “bravo” indistintamente a tutti i cantanti (ma questi ridicoli “personaggetti” si vendono l’anima per un posto gratuito alla prima? che significato ha per loro la parola dignità?) il successo c’è stato (e quando mai si nega nella provincialissima Bologna) ma questa volta “contenuto”. Che di fatto vuol dire modesto (anche se la clacque giornalistica locale urlerà al trionfo ammesso che “osi” una recensione. Mai rischiare se no gli accrediti come si ottengono…?).