di Attilio Piovano foto © Marcello Orselli
Molto opportunamente la direzione del Carlo Felice di Genova ha scelto il primo giorno di primavera, mercoledì 21 marzo 2018, per far ‘volare’ la pucciniana Rondine: in assoluto (e ingiustamente) la meno eseguita tra le opere del musicista lucchese. Avrebbe dovuto inaugurare la scorsa stagione, esattamente a 100 anni dalla première all’Opéra di Montecarlo (27 marzo 1917), ma l’evento è stato posticipato di un anno. Buono il successo di pubblico, per la più rara e negletta delle partiture pucciniane. Per l’occasione è stata prescelta la seconda versione, la cosiddetta edizione di Palermo (aprile 1920), ovvero la versione rimaneggiata da Puccini stesso, specie nel finale – la faccenda della lettera ben nota agli esegeti – frutto di ripensamenti, al termine di un travagliato e sofferto iter creativo.
La rondine – si sa – era infatti originariamente destinata alle scene viennesi e di operetta si sarebbe dovuto trattare (genere quanto mai ‘lontano’ dal genio pucciniano), ma venne poi ben presto, e saggiamente, convertita in commedia lirica. E da allora ecco che gli equivoci e, più ancora, i misconoscimenti del reale valore di una partitura eccellente ed elegantissima, sono perdurati purtroppo da parte di pubblico e critica sino ad anni relativamente recenti, finendo per danneggiarne la reputazione. Si è parlato di una Traviata minore, o più propriamente in tono leggero e smagato (non a caso, vien fatto notare, la produzione genovese è intenzionalmente «costruita sia sul piano tematico sia su quello scenografico sullo stesso impianto scenico della Traviata» stante la notevole messe di assonanze ed affinità: «una mantenuta parigina che si innamora di un ragazzo di provincia, fugge con lui in Costa Azzurra e poi lo lascia, sia per un sussulto morale, sia perché sono finiti i soldi», così nelle note di regia); si è ingigantita capziosamente la crisi creativa (e umana) che, a onor del vero, attanagliava Puccini a metà anni Dieci del Novecento, dopo Fanciulla e prima del Trittico; si è denigrato il libretto di Adami (certo non eccelso e pur fitto di puntuali e minuziosi didascalie, ancorché funzionale alla vicenda) e si è lamentata da sempre la mancanza di quei temi indimenticabili che del lucchese sono la firma.
Ma i valori della Rondine sono altrove: nella tramatura orchestrale, nella modernità dei timbri e nella bellezza della veste musicale. Sicché l’edizione genovese costituiva ragionevolmente l’attesa occasione per misurare la tenuta anche drammaturgia dell’opera stessa. Una sfida, pienamente riuscita. Ed ecco allora che è emersa al meglio l’essenza ultima di quest’opera venata di ironia e mestizia, popolata di amori fatui, inquietante affresco di una realtà frivola e ipocrita, dove una spaventosa vacuità di matrice segnatamente novecentesca (pirandelliana e nevrotica se si vuole) domina sovrana, dove non c’è posto per sentimenti veri, per l’amore grande, quello intenso e fin tragico che ha sempre caratterizzato le eroine pucciniane, da Manon a Mimì, da Floria Tosca a Ciò ciò San, giù giù sino alla piccola dolce Liù. Ed è questa forse la ragione ultima della non piena riuscita dell’opera (pur eccelsa sul piano musicale), ovvero il soggetto troppo distante dal cliché pucciniano.
Molto apprezzata la concertazione e la direzione di Giuseppe Acquaviva che, assai ben assecondato da Orchestra e Coro del Carlo Felice (maestro del coro Franco Sebastiani), ha posto in luce una miriade di dettagli armonici e soprattutto timbrici di cui è ibridata la superba partitura della Rondine (per la quale l’autore stesso nutriva sentimenti contrastanti, passando dall’affettuosa predilezione all’auto-denigrazione nei momenti di depresso sconforto). Solo in qualche tratto Acquaviva, che ha impresso sin dall’esordio ritmi sciolti e brillante scorrevolezza, tendeva a sovrastare leggermente le voci, specie nel primo e nel second’atto. Acquaviva ha peraltro centellinato comme il faut il celebre «Chi il bel sogno di Doretta», pagina imbevuta di quella struggente malinconia che dell’opera intera è il manifesto espressivo.
Elena Rossi – buona vocalità e gran presenza scenica – ha dato corpo ad una Magda a tutto tondo, convincendo sia sul piano vocale, sia su quello attoriale. Ancor più apprezzata la Lisette di Giuliana Gianfaldoni, perfettamente nella parte della frivola cameriera. Benino Arturo Chacón-Cruz che ha forse ecceduto un poco in chiave verista nei panni di Ruggero: qualche asprezza nel registro acuto, alcune incertezze ed un eccesso di toni melodrammatici nell’ultimo atto hanno in parte vanificato i suoi sforzi per rendere credibile il personaggio. Opportunamente macchiettistico (e a posto sul piano vocale) il Prunier di Marius Brenciu, corretto Stefano Antonucci (un Rambaldo austero e ipocrita, falso moralista), validi i comprimari.
Scene tra il naïf ed il pop, quelle di Guido Fiorato (che firma anche i fantasiosi costumi) con citazioni dal mondo circense e figurini di ballerine che paiono usciti da un quadro di Botero, nel secondo atto (al Bullier), dove si consuma il vero e proprio climax drammaturgico, ma anche un’enorme luna bianca di cartapesta, come la disegnano i bambini nelle fiabe, sulla quale bamboleggia Magda nel suo celebre a solo, tenendo tutti col fiato sospeso. Poi per l’ambientazione da ‘figli dei fiori’ ecco nel terz’atto una Costa Azzurra allusiva e assolatissima (sulla spiaggia riappare uno dei pianoforti verticali del Bullier in foggia di panchina), in apparenza una cesura netta rispetto ai primi due atti, ma in realtà dal fondo (attraverso l’enorme foro entro un telo rosso che cala) si vedono occhieggiare i personaggi e la vita parigina: come a ribadire la malinconica, la struggente mestizia che a ben guardare è la cifra di fondo di questa partitura bellissima e toccante. La regia di Giorgio Gallione muove i personaggi tra scene di cabaret con innumeri pianoforti, lustrini, lucine, pailletes, tocchi di trash, ballerini ‘travestiti’ in tutù decisamente kitsch e quant’altro – valide le coreografie di Giovanni Di Cicco, a sottolineare la continuità per così dire d’ambiente tra primo e second’atto, tra la casa di Magda ed il locale notturno; apprezzabile per la scioltezza e la brillante vivacità che imprime alla vicenda, la regia in realtà finisce per assecondare al meglio quel retrogusto di amarezza, quelle striature di spleen che della partitura – merita ribadirlo ancora una volta – sono il dato più vistoso (ottime e funzionali le luci di Luciano Novelli). Successo per tutti grazie ad una produzione di buon livello della quale conserveremo a lungo gradita memoria.