di Luca Chierici foto © Brescia & Amisano
Che il tema tutto romantico ruotante attorno alla figura del pirata, anticipato da una tragedia inglese del 1816 di Charles Maturin, ripreso poi a Parigi contemporaneamente all’uscita dell’omonimo romanzo di Walter Scott (1822), si potesse inserire nel filone dei possibili soggetti per un moderno libretto d’opera è constatazione piuttosto semplice, dato il carattere avventuroso della trama e la definizione di caratteri contrapposti nella psicologia dei protagonisti. Puntualmente Felice Romani ne trasse materiale per il giovane Vincenzo Bellini, un Bellini ancora in fase sperimentale anche se non nuovo al teatro musicale e ansioso di debuttare alla Scala con una nuova opera che poteva contare su un cast spettacolare. Il Pirata andò in scena il 27 Ottobre del 1827 con un successo eccezionale che si ripeté ancora nel 1830 e nel 1840. Poi scomparve fino al 1958, almeno nel teatro milanese, quando venne ripreso grazie anche alla presenza di una Callas come al solito ispiratissima. Il vuoto che separa le ultime esecuzioni ottocentesche dalle successive è spiegabile in base a molte considerazioni che risultano chiare già andando a leggere le cronache e le critiche della “prima”: a parte il non secondario aspetto della vocalità, allora risolto attraverso la presenza di nomi entrati nella leggenda, si tratta qui di un Bellini non ancora giunto alla decantazione lirica dei capolavori successivi ma già propugnatore di un modo nuovo di intendere il colore orchestrale, la vividezza dei recitativi, le scene d’assieme che non mancò di suscitare l’entusiasmo degli ascoltatori di quei tempi lontani. Eppure nelle riprese moderne di quest’opera difficile si è quasi sempre cercato – e giustamente – di puntare l’attenzione sull’aspetto belcantistico, piuttosto che approfondire altri temi che risultano più fragili rispetto agli esiti del Bellini successivo e che tuttora lasciano piuttosto perplessi. Non ultimo un rapporto tra musica e parola che non è sempre del tutto felice, anche dal punto di vista metrico.
La ripresa del titolo alla Scala è stata inserita in cartellone in base a un nuovo allestimento co-prodotto con il Teatro Real di Madrid e la San Francisco Opera, fondato sull’intervento registico dello spagnolo Emilio Sagi, con la scenografia di Daniel Bianco, i costumi di Pepa Ojanguren e le luci di Albert Faura. Nel leggere le considerazioni preliminari del regista si capiscono ma non si approvano gli esiti finali (“tutta l’opera è impregnata di un’aura nostalgica … che può suscitare un effetto ipnotico estremamente moderno, tanto da assomigliare ad alcune composizioni minimaliste contemporanee”) se non in qualche momento meglio riuscito, soprattutto nella cosiddetta scena della pazzia. Il Pirata è del resto opera non facile da rappresentare perché più che di una successione effettiva di avvenimenti si deve tener conto della gamma di affetti (e di odio) che muove i personaggi principali. L’idea registica doveva peraltro essere sorretta da una palese essenzialità nelle scene e nei costumi (“…eliminando tutti quei dettagli che contestualizzano l’epoca e i luoghi in cui si svolge l’azione … una scelta che privilegia un’armonia bicolore – bianco e nero – e un allontanamento estraniante nella realizzazione delle scene …”) che non era sanzionabile a priori, ma che ha portato a un impianto visivo scontato fatto di pareti mobili composte da elementi riflettenti che, oltre ad essere non certo originali, hanno portato al consueto effetto nocivo di forti luci riflesse negli occhi degli spettatori, soprattutto durante la scena iniziale della tempesta . E la stessa alternanza di bianco e nero nei costumi atemporali non era certo elemento di novità e di appeal in un contesto piuttosto uniforme e poco attrattivo, ivi compresa la comparsa di cappelli a cilindro che volevano forse caratterizzare l’aspetto dei cortigiani di Ernesto. Anche in questo caso l’idea migliore si è manifestata nel finale, con la scena ottava nella quale compare il feretro di Ernesto e soprattutto nella scena della pazzia, dove il lungo strascico dell’abito di Imogene è generato dagli ampi tendaggi che hanno origine nel fondale.
L’apporto musicale di Riccardo Frizza è stato meno interessante rispetto a quanto ci si sarebbe potuto attendere dalle considerazioni programmatiche dello stesso direttore, che giustamente aveva notato nelle sue dichiarazioni il carattere sperimentale dell’opera. A distanza di anni dalle riprese pur non frequenti del titolo belliniano, avremmo preferito oggi una lettura più pregnante, diretta a mettere in luce gli aspetti innovativi del linguaggio invece che dissimularne gli esiti, a partire dalla metrica insolita dell’incipit che non è stata sufficientemente messa a fuoco. Frizza ha peraltro avuto il merito di seguire in maniera esemplare le voci protagoniste, e di tenere salda la situazione anche nei momenti più complessi di assieme.
Grande attesa vi era per ciò che riguardava il cast, al di là di quelli che possono essere considerati lagnosi piagnistei sulla mancanza delle “voci di una volta” (che nel caso del “Pirata” non sono ovviamente state mai ascoltate da essere tuttora vivente, né documentate se non attraverso le cronache dei contemporanei). E qui si è anche sperimentata la sorpresa di un dissenso covato a lungo durante tutto lo spettacolo da parte del loggione e in parte contraddetto durante lo svolgimento dei due atti. Applauditi sono stati infatti i protagonisti fin dall’inizio, a partire dalla prima cabaletta di Gualtiero: ma già in questo caso il tenore è sembrato esibire una vocalità non spontanea, con il raggiungimento di tessiture proibitive a scapito di una naturalezza che sarebbe stata più in linea con una parte più che impervia. Quello che è riuscito solo in parte a Piero Pretti (che ha comunque avuto momenti convincenti nel seguito) ha trovato piena corrispondenza nella voce e nella presenza scenica di Sonya Yoncheva, soprano bulgaro che si è imposta fin dall’inizio con un colore brunito di voce che ricordava da vicino quello della Callas. Eppure anche qui la Yoncheva è sembrata più a proprio agio nella sua prima cavatina (e in quelle successive, e nei recitativi) che nelle agilità delle cabalette, dove spesso mancava il lato più appariscente e virtuosistico dell’impianto belcantistico. Dal punto di vista interpretativo si è poi capito fin dall’inizio come risultasse vincente la proposta di una Imogene già caratterialmente sopra le righe fin da quel “Sventurata, anch’io deliro”, tanto che la scena finale della pazzia è risultata tutto sommato in questo senso non così ‘estrema’ come ci si sarebbe potuto attendere. Non altrettanto applaudito, fin dall’inizio, è stato invece Nicola Alaimo, forse non in serata e non al massimo delle proprie risorse. Cantanti e direttori sono stati maggiormente apprezzati nelle parti diciamo così cameristiche (il duetto Imogene-Gualtiero nell’atto primo, il terzetto dell’atto secondo). Di grande impatto è stato l’apporto della Yoncheva nel finale, dove ancora la cantante evocava il mito della Callas nel recitativo e nel Cantabile, più che nella cabaletta conclusiva. Si diceva però che il dissenso, limitato ma molto rumoroso, si è manifestato alla fine durante le chiamate generali e singole. Se la Yoncheva ha ricevuto applausi molto convinti e Pretti è stato accolto da un successo di stima, nessun altro – a parte i bravi comprimari e il sempre eccellente coro scaligero guidato da Bruno Casoni – è sfuggito ai fischi, che hanno siglato negativamente la serata. Non si è d’accordo con l’intensità dei dissensi, bensì con la classifica degli stessi, che ha penalizzato soprattutto Alaimo e i responsabili dell’allestimento.