di Marco Testa
Il prossimo venticinque settembre ricorrerà il quindicesimo anniversario della scomparsa di Edward W. Said, poliedrica e discussa personalità di studioso e intellettuale palestinese-statunitense, universalmente noto per il fortunato saggio Orientalism (pubblicato per la prima volta nel 1978), quindi per essere stato attento osservatore delle dinamiche culturali, politiche e sociali che interessano i rapporti tra Occidente e mondo arabo e, ancora, stimato docente di letteratura presso la Columbia University di New York. Ma se si è ritenuto opportuno commemorarne la figura sulle pagine de Il Corriere Musicale è perché la sua vicenda, intellettuale e umana, si alimenta quanto mai di sensibilità sonora: la ricerca costante, la volontà, profonda, di scoprire e mettere in rapporto i collegamenti esistenti tra i vari aspetti della cultura, e della vita, lo portarono anche ad accostarsi all’«arte di Euterpe», per dirla con Alberto Savinio, arte di cui fu egli profondo conoscitore e amatore genuino, ciò che lo portò a svolgere un’intensa attività critica presso diversi giornali americani, attività durata grossomodo un (fittissimo) ventennio.
Said si annovera tra quelle figure innamorate della musica che nella musica vedeva tutto: uno svago, un calderone di spunti per le più ramificate riflessioni, una dottrina, una ragione per attraversare gli Stati Uniti da una costa all’altra, magari per ascoltare un esecutore per il quale nutriva particolare interesse, o ancora un sostegno in un momento di particolare durezza. La moglie Mariam non dové pertanto troppo stupirsi, ad esempio, quand’egli decise di andare ad ascoltare un concerto proprio mentre il figlio si trovava ricoverato in ospedale per una grave infezione.
Già anni or sono (2010) l’editore Feltrinelli ebbe il merito di riunire e pubblicare molti degli scritti musicali di Said nell’antologia intitolata Musica ai limiti, scritti che a loro volta non possono spiegarsi senza il riferimento a tutto quel patrimonio culturale nel senso più lato, così ramificato, di cui Said era nutrito, a cominciare da uno stretto rapporto con la contingenza politica. Così, “Politica della musica” avrebbe potuto intitolarsi, a tratti, il testo appena citato (benemerita operazione, davvero, per la quale non si può che continuare a essere grati all’editore), dove qua e là riemerge il riferimento al logorante conflitto arabo-ebraico, paragonato, considerata la complessità, ora a una grande sinfonia ora a un complicato contrappunto. Conflitto rispetto al quale Said poté, certo ben affiancato da Daniel Barenboim, far in qualche modo sentire la propria voce, ciò che fece con un’intuizione che ha dello straordinario, ancorché si tratti di un fatto non ancora forse adeguatamente noto (nemmeno tra non pochi osservatori del medesimo conflitto in Medio Oriente): la fondazione della West-Eastern Divan Orchestra proprio insieme al celebre pianista e direttore d’orchestra argentino-israeliano, nel 1999.
Tutto ebbe inizio nella hall di un albergo londinese, circa sei anni prima. È lo stesso Said a raccontare, in un articolo pubblicato sul “New York Times” nel febbraio del 2000, come avvenne il primo fortunato incontro con Barenboim, generatore di un rapporto destinato ben presto a maturare in solida amicizia e fruttuosa collaborazione:
«Giugno 1993: ero a Londra per tenere alla radio le BBC Reith Lectures, e avevo anche comprato un biglietto per andare a sentire Daniel Barenboim suonare il Primo concerto di Bartók con Pierre Boulez e la London Symphony Orchestra. E a un tratto ecco che Daniel era li, nella mia stessa coda, a un passo da me. Non sono uno che va a importunare le celebrità, e per dirla tutta, la barriera che divideva me, arabo, da lui, noto musicista israeliano, era tutt’altro che facile da oltrepassare. Ma Daniel era lì, e in un istante la barriera era alle spalle. Qualcosa ci guidò, come accade nella vita in rare, felici occasioni; e riconoscerci, in qualche modo, fu un gesto intuitivo, immediato, profondo. Tra quel venerdì pomeriggio e la domenica sera, quando si tenne il concerto, passammo insieme tutto il tempo che rimaneva libero dai rispettivi impegni […]. Soprattutto parlavamo, parlavamo senza sosta. Musica e politica, naturalmente. E poi arte, vita, tutto».
Racconta Said che dopo il concerto si recò nel camerino per congratularsi con il nuovo amico (e naturalmente con Boulez). Vi trovò, su un leggìo, una copia di un suo libro, The question of Palestine. Fu l’inizio di qualcosa. Qualcosa che porterà, da barricate opposte, al più comune degli intenti, alla più nobile delle idee: di lì a pochi anni quelle lunghe chiacchierate presero appunto forma nella fondazione di quell’orchestra che prende il nome da un gruppo di sonetti goethiani intitolati West–östlicher Divan (Divano Occidentale-orientale) ed il cui nerbo è costituito da musicisti di cultura araba ed ebraica. Per cui centrale si stagliava certamente il valore della comunicazione interculturale, elemento che premeva particolarmente ai due fondatori.
Principiava dunque il progetto, nonostante sulle prime non per tutti gli orchestrali sembrava accettabile condividere il leggio accanto a qualcuno proveniente da paesi tradizionalmente avversi. Né Said né Barenboim si sorpresero, pertanto, quando alcuni musicisti decisero di abbandonare. Ma la West-Eastern Divan Orchestra, che oggi si esibisce in sale e festival di prestigio in tutto il mondo, resistette e riuscì a proseguire per la sua strada. E nel 2007 l’allora segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, nominò Barenboim, cui era naturalmente spettata la direzione musicale dell’orchestra, ambasciatore delle Nazioni Unite per la pace.
La produzione critica musicale di Said abbraccia l’arco di circa un ventennio, collaboratore ora di The Nation, ora del New Yorker e di numerose altre riviste e quotidiani a partire dagli anni Ottanta. Sono scritti che testimoniano una conoscenza della musica sterminata: Said scrive di Mozart, Rossini, Wagner, Richard Strauss con invariata competenza; scrive delle composizioni per organo di Bach come della musica di Boulez, del rapporto tra scrittura e interpretazione, di teatro, di orchestrazione; ritrae alcuni interpreti che stima vivamente, Barenboim naturalmente, ma anche Brendel, Celibidache, Glenn Gould (la cui morte nell’82, arrivò a sostenere la moglie di Said, colpì il marito al punto da volersi dedicare sistematicamente a scriver di musica soltanto a partire da allora) e ancora Pollini, Schiff, di cui esaltò la visione estetica unitaria all’interno dei programmi proposti nei propri recital.
Penna educata, raffinata, senz’altro, discutibile in certi casi, ad ogni modo tutt’altro che fragile e remissiva: Said era ben consapevole del proprio valore, della propria forza espressiva, della competenza sicura di una musica non costretta nei limiti dello specialismo ma dotata di una forza unificante col sapere altro e persino di uno spirito unificatore, di un empito identitario (in fondo non aveva forse affermato Otto von Bismark che l’unità della Germania tanto doveva al Lied tedesco?):
«I miei scritti sulla cultura, la politica, la critica, la letteratura, la musica offrono un solido sfondo a questa nuova impresa [Said parla in questo caso di un libro su Bach e Beethoven come metafora dell’invenzione e dello sviluppo dell’Occidente, ndr], insieme alla mia profonda conoscenza della musica».
Antispecialista l’aveva definito Barenboim; ma soltanto laddove appunto Said, peritissimo di letteratura anglosassone, di cultura araba e certo di musica, si divertiva a scovare (lo si è detto) i collegamenti presenti tra le cose del mondo, a incanalarli nella direzione di una consuetudine morale, ad avvalersene quale poderoso strumento di comprensione, nella convinzione che i legami tra le cose vi siano e occorra pertanto solo trovarli, inventarli in senso etimologico, ossia scoprire, sviluppare il già esistente, riconducendo il tutto, infine, in un sistema compiuto, in una visione d’insieme. Una critica musicale, quella di Said, che proprio come nel titolo della sopraccitata raccolta feltrinelliana incontra ai limiti sfere altre, porte altre: è la complessità, la comunicabilità interdisciplinare cui si è sopraccennato e che in Italia si incontra ai livelli più sommi (per non limitarci che alla musicologia e alla storiografia musicale) negli scritti di Mario Bortolotto, di Piero Buscaroli, di Quirino Principe e forse di non molti altri.
L’attività critica di Said (quella musicale e non solo quella) prende congedo con un commento al Late Beethoven di Maynard Salomon (ed. italiana: L’ultimo Beethoven, Carocci), elaborato durante la fase più difficile della leucemia che lo porterà alla morte. Esso è intitolato, ironicamente, Meditazioni intempestive e verrà pubblicato nel settembre 2003, appena qualche settimana prima della scomparsa del suo autore all’età di quasi sessantotto anni.
Comprensibilmente la prematura scomparsa di Edward Said fu per Barenboim, come avrebbe in seguito dichiarato, una vera e propria catastrofe, tanto sul piano professionale (quindi certo anche per il proseguo dell’attività dell’orchestra) che umano. Da quel momento egli dovette accollarsi da solo l’impresa di portare avanti il progetto.
Nel contempo accadeva anche qualcos’altro: la West-Eastern Divan Orchestra si esibiva per la prima volta in un paese arabo, a Rabat, in Marocco, tra l’entusiasmo, a tratti incredulo, dei suoi orchestrali. C’è da consolarsi al pensiero che, negli ultimi suoi giorni, Said abbia potuto trarre diletto da questo fatto importantissimo, cruciale per le aspirazioni della West-Eastern, straordinario nel proprio messaggio di pace.