di Attilio Piovano foto © Lorenza Daverio
Una fitta programmazione, dal 3 al 18 settembre 2018, diciassette giorni, in totale, di full immersion con musica a 360 gradi – quest’anno il denominatore comune era la danza – oltre 73.000 presenze in complesso, 125 concerti nelle due città, 55 concerti sold out e molti altri appuntamenti vicini al tutto esaurito – così avvertono con legittimo orgoglio gli organizzatori – per la dodicesima edizione del Festival MiTo: manifestazione di livello internazionale che unisce idealmente Torino (fu il capoluogo sabaudo ad ‘inventare’ Settembre Musica nel lontano 1978, merita ribadirlo) e Milano che si aggregò dodici anni or sono quando nacque appunto il gemellaggio tra le due città. Impossibile seguire tutto e di tutto riferire, anche solo in merito ad una delle due città – nel nostro caso Torino – data la vastità e la variegata complessità della manifestazione dalla programmazione originale e assai diversificata.
E allora, dopo la cronaca della serata inaugurale, già in pagina su queste stesse colonne, ecco alcune postille e spigolature dai molti appunti accumulatisi, trascrivendo dal diario di bordo di oltre due settimane di ascolti e di emozioni: diari dai quali ci limitiamo a riportare i dati salienti, sacrificando molto di quanto vorremmo condividere con i nostri fedeli lettori, e che solo per ragioni di spazio non è possibile registrare.
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Merita soffermarsi innanzitutto sulle cosiddette Highlights. E allora sicuramente la serata del 5 settembre, al Regio, protagonisti Marta Argerich e la Neojiba Orchestra Giovanile dello Stato di Bahia diretta da Ricardo Castro. Una Argerich in gran forma che ha interpretato il Concerto in la minore op. 54 di Schumann infondendovi una singolare carica energetica, lontana da smancerie romanticheggianti, con piglio quasi novecentesco: flessuosità ritmica e singolare capacità di re-inventare i timbri nel primo tempo, con tratti sublimi quali il celebre intermezzo nella lontana tonalità di la bemolle, poi il clima sognante del secondo e da ultimo il brillante finale. E il capolavoro ne è risultato come trasfigurato, come rigenerato, pur non mancando gli intenerimenti e le squisitezze di tocco nei punti lirici. Pubblico in delirio e il celeberrimo, dolcissimo Widmung (Schubert/Liszt) offerto, quasi centellinato come prezioso bis. Un banale, piccolo incidente ha fatto sì che la Argerich non suonasse in replica a Milano. Al suo posto lo stesso direttore (che fu allievo di Maria Tipo); sul podio ha diretto con passione l’Orchestra, frutto come noto di un progetto sociale ed artistico di alto valore, in pagine di Bernstein (la pirotecnica Ouverture da West Side Story), di Gershwin (la non geniale Ouverture Cubana), di Márquez e in prima italiana di Wellington Gomes Sonhos Percutidos. Un profluvio di bis, l’ultimo – struggente – senza direttore, a mostrare l’impegno e la bravura di giovani e giovanissimi che hanno il ritmo nel sangue. E pazienza per qualche defaillance di intonazione e di ‘insieme’, del resto è un’orchestra che va valutata con criteri differenti rispetto ad altre formazioni dalla storia ultra centenaria.
Il vero e proprio clou dell’intero festival, ancora al Regio, il 15 con la Filarmonica della Scala superbamente diretta dal fuoriclasse Myung-Whun Chung che della Settima di Beethoven ha dato una lettura a dir poco straordinaria: per efficacia, giustezza di tempi (il magnifico Allegretto dall’insistente tactus ritmico), dinamismo, bellezza di suono e altro ancora. Nella prima parte della serata il giovanissimo coreano Seong-Jin Cho (classe 1994) ha letteralmente sbaragliato nel Terzo di Beethoven, dando prova di solidità tecnica e sensibilità interpretativa con comuni: un pianista dal già ricchissimo curriculum internazionale, che andrà seguito con speciale attenzione e farà parlare di sé nei prossimi decenni.
Di spicco poi anche il bel concerto della Filarmonica del Regio che Gianandrea Noseda ha guidato con mano sapiente in un percorso per intero dedicato al valzer. Formazione in gran spolvero e pubblico alle stelle (anche per il ‘ritorno’ a casa di Noseda nella sala molliniana). Quanta grazia e struggente malinconia nell’Ouverture dal Pipistrello, che è brano di adamantina perfezione, poi le magnifiche Valses nobles et sentimentales raveliane alle quali Noseda ha dedicato la dovuta attenzione, trascorrendo dall’energia squadrata della prima e dalla duttile flessuosità della seconda all’apoteosi dell’ultima; di particolare fascino la raffinata eleganza della quinta, la messa in evidenza, nella sesta, dei vistosi ‘anticipi’ rispetto a La Valse, capolavoro assoluto che infatti campeggiava in programma e che ha ottenuto il meritato successo: con quegli spostamenti d’accento e quell’inquietudine serperggiante che della pagina raveliana, vero epicedio del valzer, a suggellare un’epoca che dopo la tragedia immane della Prima Guerra Mondiale, si chiudeva per sempre, costituisce la vera essenza. Noseda ne ha dato una lettura che vorremmo definire ‘neoclassica’, lontana dalla scomposta ed esagitata allure di altre interpretazioni, a dir poco perfetta. Bene anche la suite dallo straussiano Rosenkavalier di cui Noseda ha fatto il possibile per attenuare certe inevitabili lungaggini. In programma anche lo stucchevole Valzer op. 325 (Storielle del bosco viennese) di Johann Strauss junior (un tempo un vero e proprio evergreen) con l’inconsueta presenza della cetra (solista Georg Glasl che ha poi regalato un insulso bis del quale nessuno a dire il vero sentiva l’esigenza).
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Gran finale, presso l’Auditorium ‘Toscanini’ di piazzetta Fratelli Rossaro, la sera del 18 settembre (poi replica al Dal Verme di Milano), con l’Orchestra Nazionale della Rai, direttore Stanislav Kochanovsky ed Enrico Dindo violoncello solista. Piatto forte della serata la prima italiana di Azul per violoncello e orchestra del contemporaneo Osvaldo Golijov: un brano che occorrerebbe ascoltare e riascoltare (partitura alla mano) per coglierne tutte le potenzialità e anche peculiarità. Al primo ascolto i quattro episodi di cui si compone (collegati senza soluzione di continuità) rivelano tratti insolitamente statici (talora scritti in un linguaggio cordialmente tonale) in alternanza a zone fortemente eccitate e perturbate, con gran profluvio di percussioni (e un’inconsueta disposizione dell’orchestra, per dire: un corno solista sulla destra del proscenio, un gruppo di fiati simmetrici, percussioni al centro e accanto un bayan o fisarmonica a bottoni che dir si voglia, un triangolo che platealmente viene a collocarsi quasi dinanzi al direttore, risultando peraltro quasi inudibile e via elencando). Un pezzo singolare, curioso, a suo modo anche fascinoso dove il solista pare più integrato in orchestra che non elemento atto a primeggiare. Un brano dove c’è spazio per un immane climax nel primo tempo (Paz Sulfúrica) e un linguaggio piacevolmente eclettico, ancorché non sempre geniale, poi tratti materici, altri melanconici, drammatiche e insistite settime diminuite, momenti ossessivi ed incalzanti, passaggi in bilico tra Bach e l’universo klezmer, tratti misteriosi, financo inquietanti (Silencio), insomma un pezzo che fa riflettere e forse anche discutere, con quell’inattesa chiusa fitta di iterati cigolii, come sospiri, in realtà effettistici glissandi dell’intera orchestra (Yrushalem) e un brano che pare lo specchio del nostro martoriato mondo fatto di meticciato, trasversalità e (positivo) incrocio di culture lontane.
Poi la Quarta di Brahms che Kochanovsky ha diretto con impeccabile precisione, potendo contare sull’OSNRai in ottima forma; ciò nonostante in apertura si percepiva un suono, come dire, un po’ vischioso e non del tutto ‘brahmsiano’. Molto bene per intensità il secondo tempo, stupendo il terzo, del quale direttore e orchestra hanno fatto emergere al meglio l’argentina brillantezza, da ultimo la maestosa Ciaccona che regala sempre emozioni indicibili. Bis al fulmicotone con una delle più celebri Danze ungheresi, l’orchestra che prende fuoco e un suono autenticamente brahmsiano. Gioia pura per una serata di chiusura di gran livello.
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Dei molti altri concerti seguiti ben più di un cenno merita senz’altro la performance di Xavier de Maistre, vera star europea dell’arpa, che ha saputo offrire pagine clavicembalistiche di Mateo Antonio Pérez de Albéniz e Antonio Soler rendendole palpitanti, non meno di brani di Tárrega e Granados (in succulente e raffinate sue stesse trascrizioni), giù giù sino al conclusivo De Falla della Danza spagnola da La vida breve. Ad impreziosire il tutto le nacchere di Lucero Tena, vera leggenda vivente del flamenco, grande sensibilità ed enorme appeal (in Conservatorio la sera del 7 settembre) dinanzi ad un pubblico folto e ammirato. E pazienza per qualche squilibrio fonico e in qualche tratto un inevitabile senso di ‘saturazione’.
Emozioni poi anche con la percussionista non udente Evelyn Glennie, artista a tutto tondo che sa accarezzare vibrafoni e marimbe con una delicatezza indicibile e, nel contempo, scatenare telluriche vibrazioni con casse, rullanti e quant’altro in un programma cross over che la sera del 12 in Conservatorio ha convinto al massimo un pubblico differenziato ed attento, nonostante l’inconsueta lunghezza.
Deludente a nostro avviso, invece, la serata di sabato 8 settembre in Auditorium Rai, con l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali (direttore Grazioli): un programma tutto orientato sul côté del tango, con pagine di Gardel cantate da Armiliato (amplificato), ma non è voce adatta a questo genere di musiche (vibrato eccessivo) e non bastano un borsalino, un vestito gessato, un po’ di prevedibile gestualità e un certo gigioneggiare per convincere e restituire la fragranza dei brani. In apertura il Tango di Stravinskij e in chiusura l’inossidabile Piazzolla: ma il bandoneón di Davide Vendramin pareva fin troppo ‘pulito’ e corretto, mancava di sensualità e la stessa Orchestra dei Pomeriggi esitava ad abbandonarsi, con quella libertà che Piazzolla esige inequivocabilmente. Ne è emerso un Piazzola scialbo e monocromo, come in bianco e nero, bidimensionale, privo di mordente. Un’occasione perduta, peccato.
Bella serata, invece, quella del 13 ancora al Regio con Vasily Petrenko alla guida dell’Orchestra del Regio in splendida forma: nel Primo di Čajkovskij solista Elisso Virsaladze, dal suono eccessivamente corposo, talora anche un poco inelegante, ma virtuosismo da vendere e dunque successo garantito; molto bene invece il Prokof’ev delle due Suites da Romeo e Giulietta (la seconda per intero e parte della prima): un suono davvero novecentesco e una ridda di belle intenzioni timbriche.
Da ultimo un cenno in merito all’Open Singing, la giornata dei cori, ben quindici formazioni, in contemporanea o quasi, dislocate in varie location e, a fine giornata, a Torino presso il vasto spazio delle Officine Grandi Riparazioni, tutti in piedi a cantare: un pubblico di appassionati che si è ritrovato, partitura alla mano, a cantare Bach e de André, una pagina rinascimentale, un canone e Mozart e molto altro ancora: un’esperienza indicibile anche per chi fa parte degli addetti ai lavori, ritrovarsi a cantare gomito a gomito con amateurs e dilettanti; dà la misura di quanto la musica cosiddetta classica sia viva e coinvolgente. I minuti di silenzio assoluto e un brivido che correva lungo le membra delle migliaia di persone radunate, dopo l’Ave Verum, li ricorderemo a lungo. Un plauso speciale al coro guida, il Coro Giovanile Italiano, e allo specialista Gary Graden che ha ‘istruito’ l’intera, enorme e atipica platea di ascoltatori/esecutori. Un unicum che ha del prodigioso. MiTo è anche questo.
Così come MiTo è la realtà della grande musica (dal Rinascimento al contemporaneo) portata nelle periferie grazie agli svariati concerti decentrati: per la prima volta sono stati proposti a pagamento (al prezzo quasi simbolico di tre caffè), ma la novità – avvertono – non ha limitato la partecipazione del pubblico, attento e incuriosito, anche questo un bel segnale, in contro tendenza rispetto alla conclamata caduta dei valori di cui si dice (spesso ingiustamente) a proposito del mondo attuale.
Una grande festa per la musica, significativamente riverberata dai media. E allora ecco il documentario prodotto da Rai Cultura (in onda su Rai5 sabato 29 e domenica 30 settembre poi ancora giovedì 4 ottobre (ore 16.45) e sabato 6 ottobre (ore 15.45). Radio3 ha trasmesso in diretta o differita 6 concerti mentre la Rete Due della RSI Radiotelevisione Svizzera ha dedicato al Festival, durante la prima settimana, una trasmissione quotidiana di due ore.