di Alberto Bosco foto © Javier del Real | Teatro Real
La nuova stagione del Teatro Real di Madrid si è aperta con un allestimento del Faust di Gounod a cura di Alex Ollé della Fura dels Baus, una coproduzione con l’opera di Amsterdam, dove lo spettacolo aveva debuttato nel 2014.
Da quanto si è visto in scena, è parso di intuire che l’intenzione del regista sia stata quella di ripristinare la vicenda di Faust, ridotta da Gounod e dai suoi librettisti a una semplice storia sentimentale, a quel livello filosofico e mitico cercato da Goethe nelle due parti della sua densissima opera teatrale. Si potrebbero avere ben motivate riserve di principio sull’opportunità di fare una cosa del genere, visto che è proprio grazie alla rinuncia di tutto quell’armamentario metaforico e intellettualistico che Gounod riuscì là dove molti altri, più ambiziosi, hanno invece fallito. Il suo Faust ebbe l’importanza storica e il successo che ebbe, proprio perché concentrandosi sulla storia d’amore, privata di addentellati e riferimenti esterni, aveva colto un momento nuovo della sensibilità ottocentesca, quello del ripiegamento nell’intimità come via di fuga dalle complesse e insolubili sfide che i tempi moderni prospettavano agli uomini del tempo. Così facendo, aveva inaugurato anche un tipo di opera nuovo per la Francia, ormai stanca dei toni declamatori e della teatralità spettacolare dei grand-opéras, un melodramma che esibiva una vocalità più sfumata e una scrittura curata nei dettagli contrappuntistici, fedele in questo all’insegnamento di maestri tedeschi come Mendelssohn e Schumann, ammirati e studiati da Gounod.
Certo nel Faust non mancano scene di massa e i luoghi tipici del grand-opéra, alcuni aggiunti dopo da Gounod per poter vedere la sua opera, che aveva debuttato con recitativi parlati al Théatre-Lyrique, rappresentata sul gran palcoscenico dell’Opéra. Ma sono appunto le parti più caduche, rispetto alle arie sentimentali e celeberrime che scandiscono il rapporto tra i due innamorati. Proprio queste scene, invece, sono quelle che la fantasia visuale di Ollé e della sua squadra hanno esaltato, creando un immaginario suggestivo a metà strada tra il fumetto e la fantascienza, purtroppo alquanto distante dalla borghese semplicità dei sentimenti messi in campo da Gounod. Non solo, questa impalcatura metafisica allestita per rimettere il mito di Faust alla sua degna altezza, viene poi smentita dall’interpretazione che il regista dà di questo mito, un’interpretazione che è altrettanto distante dal Faust di Goethe di quella di Gounod, la cui banalizzazione aveva almeno il pregio di essere adatta al melodramma.
Infatti, Ollé ci presenta Faust come uno scienziato ingrigito e chiuso in un laboratorio pieno di computer dove cerca di ricreare la vita o di capirne i segreti senza viverla, e per il quale la tentazione incarnata da Mefistofele è quella della seduzione femminile e dell’eros incarnato in scena da matrone tettute come nei disegni di Jacovitti e da giovani donne vestite come barbie di plastica. Non v’è in fondo molta traccia della volontà di potenza, di sapere e di farsi Dio che è il vero demone che spinge l’eroe goethiano e che, infine, ne garantisce in modo cavilloso la salvezza. Al suo posto c’è un professore represso accortosi, grazie alla guida di Mefistofele, di quanto sia attraente la sua assistente di laboratorio, la quale diventa così Marguerite: altro che mito della modernità e delle aspirazioni romantiche all’assoluto. E chissà se i capelli tinti di azzurro della protagonista non alludano proprio al titolo del celebre film di Sternberg, L’angelo azzurro, dove capitano cose simili.
In tutto questo, la direzione pesante e troppo energica di Dan Ettinger non ha certo aiutato a far emergere le qualità dell’opera di Gounod, che è risultata così falsa e farraginosa da far sorgere più di un dubbio sull’effettivo valore di una partitura che si è soliti dare per scontato. L’eccessivo e costante volume dell’orchestra e l’impostazione scenica, non hanno certo aiutato i cantanti a centrare gli accenti giusti per le loro arie, dove soprattutto le famose vocali nuancées tanto amate da Gounod sono andate perse a scapito di una pronuncia stentorea e a volte slabbrata. Nel secondo cast, nel terzetto dei protagonisti, va comunque citato il Mefistofele di Erwin Schrott, autentico animale da palcoscenico, dotato di un magnetismo e di una presenza vocale capaci di tenere in piedi da soli l’intera scena; mentre nel terzetto delle parti secondarie Annalisa Stroppa nei panni Siébel si è distinta sugli altri per come è riuscita a coniugare la comunicatività con l’eleganza di fraseggio e dizione.