di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
Apertura di stagione per i Concerti di Lingotto Musica, a Torino, la sera di giovedì 11 ottobre 2018, presso il vasto Auditorium Agnelli di via Nizza, nel segno di Beethoven sul versante sacro: e dunque ecco la Missa Solemnis affidata alle cure di Hofkapelle e Kammerchor Stuttgart, con un quartetto di scelti solisti e la direzione attenta e partecipe di Frieder Bernius. Il programma in realtà era già stabilito da tempo, ben prima che subentrassero imprevedibili circostanze contingenti e umane, di ingente portata per l’intero gruppo Fca di cui i Concerti del Lingotto sono emanazione diretta: tuttavia la dedica di questa serata inaugurale alla memoria di Sergio Marchionne (che fu vice Presidente di Lingotto Musica da 2008 al 2018) – espressamente voluta dal direttore artistico Francesca Gentile Camerana – ha circonfuso la partitura beeethoveniana di una luce particolare, rendendo l’evento singolarmente toccante e commovente.
Composta da Beethoven per l’amato Arciduca Rodolfo, la partitura di per sé è già intrisa di valori umani specialissimi, ovvero da una sorta di intimismo amicale dal quale non è possibile prescindere. Attenendosi ad una dimensione più squisitamente artistica, il fatto che il lavoro sia stato eseguito da un complesso che utilizza strumenti d’epoca e con una speciale attenzione alla prassi esecutiva storica, ha permesso di ‘rileggerlo’, più ancora, di ripensarlo entro una dimensione piuttosto atipica rispetto agli standard interpretativi ai quali generazioni di direttori e complessi di fama internazionale ci hanno abituato. Richiedendo un innegabile impegno intellettuale ed emotivo da parte degli ascoltatori, per alcuni addirittura uno sforzo: dacché, si sa, ogni volta che ci accade di ri-ascoltare una pagina celeberrima è inevitabile che la si ‘confronti’ (sia pure inconsciamente) con quel modello specifico, ovvero con quello specimen interpretativo che per la storia di ognuno rappresenta un punto di riferimento estetico, tanto fondamentale quanto invero soggettivo.
Ci perdonino i lettori la lunga premessa. Era per dire come proprio questa ci pare la chiave di lettura che occorre porre in atto per valutare nel suo complesso con serena correttezza (e lungi da pregiudizi) l’interpretazione fornita da Frieder Bernius. Un’interpretazione dove c’era spazio fin dal toccante Kyrie per intimismo e pacatezza, in una parola per quello «stile raccolto e devoto» che della Missa costituisce la principale cifra. Anche l’effusiva gioia e l’allure pur (moderatamente) sfolgorante del vasto Gloria hanno goduto di una speciale ed affettuosa attenzione da parte degli interpreti tutti, solisti, coro e direttore: posta ad evitare teatralità ed effettismi del tutto estranei in una partitura che, qua e là – in certi giri armonici, in talune torniture melodiche ed in mille altri dettagli – rivela a chiare lettere una parentela linguistica e più ancora espressiva con la coeva Nona Sinfonia. Tra i passi toccanti, l’assorta commozione dell’«Et in terra pax» sanamente controbilanciato dalla festosa chiusa del Gloria stesso.
Dei non pochi passi polifonici Bernius ha inteso evidenziare soprattutto il lavorio interno, anziché sbozzarne per grandi pennellate la monumentalità talora di matrice per così dire neo haendeliana. E allora ecco che certi attacchi imitati del coro – memori in egual misura di Palestrina come del sommo Bach – parevano avviarsi come per generazione spontanea, in punta di piedi anziché ammantarsi di un’icastica esteriorità, di fatto estranea, merita ribadirlo, alla Missa beethoveniana. Ecco allora che nel vasto Credo momenti quali l’«Incarnatus» e il «Crucifixus» hanno raggiunto vertici di notevole intensità; così pure il «Sepultus», madrigalisticamente proteso verso sonorità gravi, prima dello svettante annuncio della Resurrezione e del conclusivo, giubilante «Amen»: peraltro di un giubilo pur sempre misurato e come filtrato attraverso una dimensione ‘altra’, quasi post humana
Davvero bello il colore brunito e arcaicizzante molto opportunamente conferito all’esordio del Sanctus. Il fraseggiare del violino ‘solo’ nell’assai celebre «Benedictus» che emerge come da un magma sonoro di sorprendente colore oro antico, punteggiato dagli interventi delle percussioni, è parso forse un po’ troppo baroccheggiante, qualche vibrato in più (ed anche una maggior cura nell’intonazione) non avrebbero guastato. Il clou nel variegato «Agnus» dove una miriade di elementi, che non sono solamente descrittivistici, bensì espressivamente pregnanti, si sono avvalsi di cure speciali: e ancora ecco messe in luce certe affinità con la Nona (per dire, il passo di musica militare che pare il gemello formato mignon del tratto turchesco nel finale sull’Ode di Schiller). Da ultimo l’epilogo è rimasto – intenzionalmente, certo – un po’ a mezz’aria, come a ribadire una lettura che intendeva rifuggire appunto da effettismi teatrali e facili compiacimenti. E pazienza se qualcuno è rimasto in parte deluso, aspettandosi un’interprtazione forse diametralmente opposta, assai più coloristica come tante ne esistono sul mercato discografico.
Buona la prova fornita dal coro, specie le voci mediane (un poco alle corde i soprani su certe note acute); suono complessivo cameristico, comme il faut e buon affiatamento. Dei solisti hanno convinto soprattutto il mezzosoprano Sophie Harmsen e il tenore Sebastian Kohlhepp, partecipe altresì l’interpretazione del soprano Johanna Winkel, pur a fronte di qualche asprezza e piccole forzature; bene il basso Arttu Kataja, nonostante qualche disagio in note ultra gravi che stentavano ad arrivare sino a fondo sala. Dell’orchestra ottimi sono parsi i fiati, per la bellezza della pasta sonora, un po’ più anodini e ‘freddi’ gli archi, ancorché non certo inespressivi. Applausi contenuti, ma convinti.