di Luca Chierici foto © Erika Bonelli/Facebook
Il concerto che ha avuto luogo l’8 febbraio scorso a Milano, all’Auditorium di Largo Mahler, con l’Orchestra Verdi diretta da Carlo Boccadoro, aveva come punto di interesse principale l’omaggio a Fabio Vacchi, una delle figure di intellettuale che ancora riesce a trovare il modo di scrivere musica tenendo conto sia del contributo storico delle avanguardie che di quello che ci è stato tramandato da una luminosa, secolare, tradizione.
Del Concerto per violino di Vacchi ci eravamo interessati fin dal suo nascere, quando era stato trasmesso radiofonicamente dal Petruzzelli di Bari (novembre del 2016) in una magnifica lettura da parte del solista Francesco D’Orazio e dell’orchestra diretta da Axelrod. Si trattava di un work in progress, che ha avuto una sua nuova consacrazione, tra le altre cose, a New York lo scorso anno, con un notevole successo, e che è stato ora riproposto con un lavoro intenso di concertazione da parte dell’Orchestra Verdi e di Carlo Boccadoro, interprete magnifico il violinista Domenico Nordio, che si è letteralmente calato in questa partitura intensa con una dedizione di studio e di cuore che era palpabilissima e che gli ha meritato una vera e propria ovazione da parte del pubblico.
Il Concerto è opera di notevole complessità, dove non si sa se ammirare di più il complicato tessuto polifonico orchestrale o il canto infinito che è affidato alla parte solistica. C’è stato un momento, verso la fine del primo movimento, in cui non ci si poteva capacitare del livello di tensione espressiva cui giungeva la scrittura della parte principale e allo stesso tempo il grado di assoluto coinvolgimento da parte del solista, impegnato in una linea melodica che sembrava non dovesse avere mai fine. È vero che i primi due movimenti del Concerto, e soprattutto il secondo, richiamano alla memoria le linee del capolavoro di Alban Berg, pagina che non si finisce mai di ammirare proprio per la compenetrazione assoluta tra il messaggio musicale e la specificità di canto di uno strumento così difficile da padroneggiare.
Ma in un certo senso il filo del discorso violinistico portato avanti da Vacchi era in realtà un omaggio a tutta una tradizione che affonda le radici nella fucina cremonese e, più che nel virtuosismo paganiniano e nei suoi derivati ottocenteschi, nella straordinaria capacità da parte dei classici di sfruttare le caratteristiche “parlanti” della voce di questo strumento. Mozart, unico tra i grandissimi compositori a padroneggiare il violino in maniera eccelsa («Tu stesso non sai come suoni bene» gli aveva scritto il padre Leopold, che di violino se ne intendeva al punto di compilare il trattato più importante del secolo diciottesimo) non ebbe certo problemi nel trovare sempre la strada maestra nello scrivere per questo strumento, tanto da dire tutto quello che si poteva dire ancora in gioventù, per poi dedicarsi più compiutamente alla tastiera. Ma con Beethoven e Brahms, che violinisti non erano e che si intestardirono al punto di chiedere consigli sulla effettiva eseguibilità delle loro idee in quel campo, si era giunti a un modello che servirà come faro per tutti i successori: il compimento di un progetto sinfonico di vasto respiro all’interno del quale il violino assumeva di volta in volta il ruolo di collaboratore e di antagonista, soprattutto di portatore privilegiato del discorso melodico.
Ecco, nel Concerto di Vacchi si legge innanzitutto una linea di proseguimento che affonda le radici in questa visione aurea e che ne spinge le conseguenze fino a incontrare un tipo di sensibilità narrativa più affine ai giorni nostri. Come questo modello potrà essere sfruttato dalle generazioni successive non ci è dato di sapere, ma quasi certamente le potenzialità discorsive dello strumento ad arco sono ben lungi dall’essere state sfruttate in maniera definitiva, come ci ha appunto dimostrato Vacchi.
Il Concerto di Vacchi è strutturato in tre movimenti, con una evidente differenziazione tra i primi due e il finale. Nel primo la voce del solista sembra volersi affermare attraverso la scelta di figurazioni che salgono verso l’acuto – registro privilegiato – come guizzi che disperatamente chiedono di concentrare l’attenzione sulle potenzialità dello strumento nel solcare tutta la gamma di suoni fino all’estremo udibile. Un elemento semplice ma costantemente ripetuto rappresenta una sorta di leitmotiv ricorrente
La condotta monodica dello strumento è amplificata nel seguito attraverso difficili passaggi polifonici, bicordi di azzardata esecuzione, fino a sfociare in una vera e propria cadenza di straordinario impatto. L’orchestra spesso dialoga con il solista imitandone le proposte, quasi un implicito consenso, oppure interviene attraverso delle figurazioni corali mirate quasi a moderare la tensione accesa dai virtuosismi e dalle impennate dello strumento. Nel secondo movimento vi è forse l’omaggio più scoperto a Berg e al suo Concerto per violino, e anche qui al solista è affidata una lunga serie di interventi melodici lineari, con rare comparse accordali verso il termine del discorso. Il “Presto brillante” conclusivo attacca senza soluzione di continuità e ci trasporta in un clima espressivo del tutto differente, dove il lato più appariscente è quello di una motilità incessante e di un trattamento ipervirtuosistico dello strumento, questa volta chiamato a risolvere difficilissime configurazioni accordali, quasi un contraltare alla melodiosità monofonica d’impianto ravvisabile in gran parte dell’opera. L’orchestra è trattata anch’essa in maniera virtuosistica e non menzioniamo se non di sfuggita l’estrema difficoltà dell’insieme, che può essere risolta solamente grazie a un lavoro collegiale di lungo ed estremo impegno. È ciò che è stato fatto da Domenico Nordio – campione assoluto di questa proposta – e da Carlo Boccadoro attraverso l’orchestra Verdi, con un impegno che è doveroso ripetere in pubblico e fissare attraverso il disco. Accanto al Concerto di Vacchi si sono ascoltate due celebri pagine sinfoniche di Mendelssohn, entrambe legate ai viaggi scozzesi del compositore: l’Ouverture “Die Hebriden” e la terza sinfonia, frutto quest’ultima di una lunga gestazione. Il filo sottile che faceva da collante tra le due scelte del programma era in un certo senso un altro celebre concerto per violino di impianto melodico, quello appunto di Mendelssohn che fin qui non abbiamo voluto citare.
Boccadoro ha fatto sentire senz’ombra di dubbio il proprio sentimento di fondo verso queste due pagine fantastiche di un compositore per tanto tempo ingiustamente criticato, anche e soprattutto da colleghi illustri quali Wagner e Debussy. E ha indirizzato questo sentimento verso una concertazione allo stesso tempo memore di una oramai antica tradizione esecutiva, proiettando idealmente la sala dell’Auditorium verso i luoghi di eccellenza ove si custodisce il verbo mendelssohniano.