di Attilio Piovano foto © Marcello Orselli
Strepitoso successo, al Carlo Felice di Genova, la sera di venerdì 15 febbraio 2019, per il verdiano Simon Boccanegra nel superbo allestimento del Mariinskij di San Pietroburgo per le fascinose scene e la regia di Andrea De Rosa (ripresa da Luca Baracchini) con i funzionali e fastosi, magnifici costumi di Alessandro Lai. Sala gremitissima, al gran completo, e una partecipazione emotiva comprensibilmente molto forte, dacché il Simone – si sa – per i genovesi è l’opera per antonomasia, ambientata nella Genova del Duecento con il Doge Boccanegra, ex corsaro dalla vita turbolenta e dagli amori irrequieti, a giganteggiare. Un opera dalla trama complessa, dall’incredibile saldezza drammaturgica, avara di melodie e cantabili, ma – per contro – dallo strumentale ricchissimo e dall’indicibile densità armonico-timbrica. A sovrastare il tutto il mare, protagonista assoluto di quest’opera fascinosa per la quale il pubblico ha sempre manifestato qualche perplessità, laddove critici e studiosi ne hanno invece sempre additato gli enormi valori musicali in essa racchiusi (se è concesso esprimere un gusto personale, chi scrive queste note, detto con umile sincerità, senza snobismo né pose intellettuali, ritiene il Simone il capolavoro assoluto di Verdi): sicché constatarne il successo peno riempie il cuore di gioia.
Il Carlo Felice per l’occasione ha fatto le cose davvero in grande proponendo un allestimento di gran classe volto a rendere protagonista non a caso il mare stesso, vera presenza immanente entro la partitura verdiana concepita nel 1857, ma radicalmente riveduta (grazie al fondamentale apporto di Boito) negli anni Ottanta dell’800. E allora di grande impatto visivo le naturalistiche proiezioni firmate dal light & video designer Pasquale Mari che ha saputo suggerire magnificamente il ‘respiro’ del mare, con la sua continua mutevolezza di luci e colori, nella varie ore del giorno, eppure sempre uguale a se stesso, quasi il contraltare del mutare dell’animo umano. Un mare sempre presente, anche (paradossalmente) quando di fatto è assente (nel second’atto, ambientato all’interno del Palazzo Ducale). Un mare che torna protagonista in chiusura quando Boccanegra, ormai avvelenato e morente, ne assapora avidamente e con immane nostalgia la brezza, prima di concedere il perdono ai suoi nemici, benedire il matrimonio dei giovani Gabriele e Amelia e propiziare l’elezione a Doge dello stesso Adorno (quasi ideale passaggio delle consegne). Dunque successo pieno circa l’aspetto per così dire visivo dello spettacolo, con una regia che ha mosso bene le masse e i singoli sulla scena, regalando istanti di grande emozione senza far (quasi mai) venir meno la tensione, salvo forse in un paio di punti (ad esempio quando occorre attendere un po’ troppo certi cambi di scena, comprensibilmente per ragioni tecniche). Forse, a volere cercare a tutti costi un peccato veniale, meglio ancora, una piccola caduta di gusto, si sarebbe potuto evitare di evocare la salma di Maria nella bara… nel cupo del Prologo. Ma è valutazione del tutto personale.
Ed ora il versante squisitamente musicale. Dal canto suo Andriy Yurkevich, dal podio, potendo contare sull’Orchestra del Carlo Felice in ottima forma e sul Coro, possente ed icastico (ottimamente diretto da Francesco Aliberti), ha compiuto un accuratissimo lavoro di concertazione, specie volto a focalizzare il colore brunito e plumbeo della sublime partitura, fin dal pacato esordio, oltre che a dar rilievo ai momenti ‘corali’ (la sublime e concitata scena del Gran Consiglio), non meno che al côté intimistico. Un direttore apprezzato per i tempi giusti, per l’eleganza nel centellinare le risorse timbriche e per la sicurezza con la quale – da vero ‘nocchiere’ (sia concesso,visto che si parla di opera marinara e corsara) – ha saputo condurre in porto l’intero spettacolo.
Superlativa la prova fornita da Ludovic Tézier dall’esuberante vocalità che ha sbozzato un Boccanegra credibile ed umanissimo, autorevole e duttile al tempo stesso: grande interpretazione la sua, sia sul piano vocale, così pure su quello scenico (momenti di forte impatto el Prologo, nella scena clou del Gran Consiglio e nel conclusivo e tragico «M’ardon le tempia…»). Bene il Fiesco di Giorgio Giuseppini che gli ha ottimamente tenuto testa, fin dall’iniziale duetto, teso e drammatico «Simon? Tu!» (memorabile altresì il toccante colloquio e il loro ricongiungere le fila di una vita intera nel finale «Delle faci festanti al barlume»); ottimo e applauditissimo il tenore Francesco Meli nei panni di Adorno (ha colto applausi convinti in «Sento avvampare nell’anima» e «Cielo pietoso rendila») e così pure a posto l’Albiani di Leon Kim dalla incisiva presenza scenica e dalla ricca gestualità (ammirato in «Me stesso ho maledetto»).
Sul versante femminile assai apprezzata Vittoria Yeo per la raffinatezza e l’intensità dell’interpretazione (bei suoni filati e tanta delicatezza in «Come in quest’ora bruna»). Un plauso altresì per Luciano Leoni (nei panni di Pietro) e Simona Marcello (l’ancella di Amelia), e un cenno doveroso a Luisa Baldinetti (mimo) che ha dato visibilità (ma in maniera lieve ed intelligente) al fantasma di Maria, eludendo il rischio del didascalico. Successo pieno ed applausi convinti per i protagonisti, il direttore, l’orchestra, il coro e il regista scenografo, a fine spettacolo: spettacolo del quale conserveremo a lungo negli anni un graditissimo e incisivo ricordo.