di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
A distanza di poco più di vent’anni Chovanščina è ritornata alla Scala ancora grazie alla guida musicale di Valery Gergiev, indubbiamente uno dei più grandi direttori russi viventi e appassionato divulgatore dei grandi capolavori che hanno fatto la storia del teatro nazionale. La serata ha registrato la presenza di numerosissimi spettatori e l’accoglienza di questo nuovo allestimento è stata più che calorosa, a parte quale contestazione finale verso il regista, con un picco di preferenze nei confronti del direttore.
La cronaca della diffusione di Chovanščina in Italia e alla Scala va di pari passo con la sempre più analitica comprensione di un dramma e di una musica che possono essere considerate secondo diverse prospettive, ferma restando la nota questione di incompiutezza e di completamento dovuto a personaggi del calibro di Rimskij-Korsakov, Šostakovič e Stravinskij. Si è passati, nel tempo, dall’inquadramento secondo una ancora romantica visione di “quadri di vita popolare russa” a un molto più complesso scenario di confronti tra culture diverse e in contrapposizione tra loro, uno scenario di difficile comprensione e realizzazione teatrale. Già i primi recensori, ai tempi del debutto dell’opera alla Scala nel 1926, avevano puntato l’attenzione sul fatto che il vero protagonista di Chovanščina è in realta l’intrigo politico fine a se stesso e che è inutile andare a cercare qui il vibrante impatto dovuto al singolo personaggio, come accade invece nel Boris. Tutto vero, ma non dimentichiamo che anche in questo caso caratteri come quello di Marfa, di Ivan e di Andrej, di Golycin e Dosifej assumono un rilievo non trascurabile, ed è in parte responsabilità degli interpreti sottolineare a dovere queste peculiarità. Il solo fatto che il coro abbia in Chovanščina un ruolo fondamentale la dice inoltre lunga sulle valenze collettive del dramma, e la stessa immanenza di quella entità indefinibile che è la “Grande Madre Russia”, che va salvata a tutti i costi, quali che siano gli effetti degli intrighi politici e della successione di poteri, conferisce all’opera un fascino tutto particolare.
Martone interviene proponendo una rivisitazione dell’opera spostandone l’ambientazione non tanto in epoca contemporanea o in un futuro immaginario ma quasi in un cronotopo indistinto dove gli agganci storici perdono gran parte del loro senso. Il movente che sta alla base dei fatti sembra non conoscere tempi né luoghi: si parla della lotta per il potere, ma anche di uno scontro tra culture, tra civiltà differenti. E in questo senso non è un caso che la cultura musicale russa ai tempi di Musorgskij vivesse una contraddizione palpabile tra i sostenitori di una identità musicale nazionale e coloro che invece erano più legati alle influenze della cultura austro-tedesca, come se la vicenda del Principe Golycin e del suo esilio anticipasse le diatribe tra il “Gruppo dei Cinque” e Čajkovskij.
Se il presupposto dell’intervento registico di Martone è ammissibile, va detto che si snatura qui il significato, pur complesso e difficilmente spiegabile nei particolari, che questo insieme di eventi ha avuto nel contesto della storia della Russia della seconda metà del secolo diciassettesimo. Forse anche per evitare una regia bozzettistica che si sarebbe dovuta rifare ai diversi caratteri delle forze in gioco in questo dramma, Martone ha in parte spostato in una specie di desolante futuro il complesso degli avvenimenti e delle lotte intestine ma così facendo non ha aggiunto un granché alla visionarietà dell’opera oltre a insistere su un tipo di trasposizione che oramai è stata sfruttata in lungo e in largo. L’uso registico e ahimè anche letterario del termine “distopico”, che oggi viene tirato in causa si può dire fin nella discettazione attorno alla preparazione di prelibatezze culinarie, è ancora la chiave di lettura di questa invenzione registica, soprattutto per quanto riguarda il primo e il quarto atto, dove la cupa silhouette di una città devastata da cataclismi di vario genere diventa il luogo di accomodamento dei fatti di Chovanščina. Per fortuna la potenza e il vigore drammatico di quest’opera sono tali da sopportare tutto ciò senza particolari traumi (ma parte del pubblico ha accolto i responsabili dell’allestimento con evidente disapprovazione) e una parte delle soluzioni registiche ideate da Martone in altri momenti rientrano nella categoria del bozzetto che nulla ha a che fare con la categoria del “distopico”.
Il palazzo di Golycin nel secondo atto ci riporta a una ambientazione più aderente al soggetto originale e si fa contenitore dell’incontro-scontro tra i protagonisti del lato politico della vicenda. La presenza di una Marfa costretta in una minuscola gabbia, nell’atto terzo, riveste una valenza drammatica innegabile, ma è forse un poco forzata, così come l’anticipazione non scritta dello stato di prigionia di Ivan. Luoghi un tempo risolti facendo ricorso al richiamo dell’esotico sono stati proposti attraverso una chiave di lettura del tutto diversa. Così è ad esempio per la scena delle danze persiane nell’atto quarto, che si trasforma in una vera e propria orgia avente al centro Ivan Chovanskij (il coro si gira verso la platea, forse imbarazzato per quanto sta accadendo). Peccato che Ivan non immagini in quel momento un epilogo così drammatico delle proprie aspettative politiche, e non è comunque che questa fine debba essere vissuta nell’incoscienza di una notte di stravizi. Altri momenti illustrati dall’intelligenza di Margherita Palli si sono rivelati efficaci ma non certo nuovi.
A partire dall’ultima scena, visibilmente tratta dall’esempio di uno dei lavori cinematografici più singolari di Lars von Trier (Melancholia): in quel caso il globo lunare si avvicinava sempre più alla terra causando una catastrofe immane, mentre qui l’approssimarsi diventa anche metamorfosi del globo, che si trasforma in un sole sempre più ribollente tanto da ingoiare tutta la scena. Filo conduttore della visione di Martone era poi la comparsa ripetuta della figura della Zarina, che attraversava la scena con i due figli. Era ancora un riferimento alla mancata presenza effettiva di quei personaggi – lo Zar Pietro in primis – che, come aveva già anticipato Gergiev, rivestono un ruolo chiave nella vicenda. Altri particolari di regia diciamo così tecnologici che sembrano oggi irrinunciabili avrebbero forse potuti essere evitati (le donnine discinte che fotografano con il cellulare Ivan Chovanskij appena ucciso, l’esilio di Golycin osservato dagli astanti attraverso Ipad e simili, le troupe televisive che filmano la disfatta degli Strel’cy, alcuni dei quali vengono inaspettatamente sgozzati “alla Isis”).
Il cast che ha contribuito al successo della serata era di qualità omogenea e ha innanzitutto assicurato un risultato di gruppo più che lodevole. Fin dall’inizio si sono molto apprezzate la presenza scenica e la qualità vocale di Maxim Paster, lo scrivano (che giunge a bordo di una motocicletta). Ivan e il figlio Andreij erano all’inizio un poco sfocati ma hanno successivamente fatto sentire la loro presenza con buona partecipazione: meno interessante la vocalità del primo (Mikhail Petrenko), più modellata sul personaggio quella del tormentato Sergey Skorokhodov. Marfa di grande spessore musicale e di notevole caratterizzazione scenica era Ekaterina Semenchuck. Forse da lei ci si sarebbe atteso un maggiore impatto in termini di volume di suono. Di ottimo livello era il Dosifej di Stanislav Trofimov, che aveva il solo difetto di apparire come un tranquillo parroco di campagna. Evgeny Akimov ha dato vita a un Golycin di spessore, che fino a un certo momento agisce come ago della bilancia in una situazione intricata. Breve ma di notevole impatto la comparsa di Alexey Markov (Saklovityi) e più che apprezzabile la Emma di Evgenia Murayeva. Sulla performance del coro condotto da Casoni sono fin inutili gli apprezzamenti. Basti notare che non di un coro si tratta ma di numerosi gruppi che di volta in volta devono assumere valenze differenti sia dal punto di vista attoriale che da quello vocale. Casoni, al termine della rappresentazione, è stato letteralmente trascinato alla ribalta da Gergiev per condividere il comune successo. Si diceva che il massimo consenso espresso dal pubblico ha avuto come oggetto la figura di quest’ultimo, che ha diretto splendidamente con alcuni raggiungimenti di grande impatto (uno per tutti, l’introduzione all’ultimo atto). Con tutta l’ammirazione per la serata odierna, va però ricordato come gli eventi musicali soffrano spesso di un processo di invecchiamento e soprattutto di oblio che sembra inspiegabile: si vada a riascoltare il Preludio all’atto primo nella registrazione effettuata dalla Rai nel 1998 e si (ri)scoprirà una esecuzione ancora più bella per colori e appassionato lirismo.
” si vada a riascoltare il Preludio all’atto primo nella registrazione effettuata dalla Rai nel 1998 e si (ri)scoprirà una esecuzione ancora più bella per colori e appassionato lirismo.”
Purtroppo non ho avuto la fortuna di ascoltare quella esecuzione, ho cercato in molti modi di recuperare un link alla registrazione indicata, ma non riesco a trovare nulla nè sui siti della RAI nè su youtube… non potrebbe fornire qualche indicazione più precisa?