di Gianluigi Mattietti foto © courtesy La Biennale di Venezia /© A. Avezzù
Nella ridda di cambi ai vertici delle istituzioni musicali italiane, si è conclusa anche la lunga esperienza di Ivan Fedele come direttore artistico della Biennale di Venezia. Otto anni di onorato servizio, con un bilancio in chiaroscuro, perché le sue Biennali hanno cercato di stimolare l’attenzione sulla musica contemporanea interpretandola in senso «esteso e trasversale», affiancandovi musiche diverse (che spaziavano quest’anno da Monteverdi al fusion funky di Mohini Dey), ma ignorando molti dei protagonisti emersi ultimamente nel panorama internazionale. In questa edizione dedicata all’Europa, con il Leone d’oro alla carriera a Georges Benjamin, e il Leone d’argento a Matteo Franceschini (in Songbook, nuovo lavoro dedicato alla forma-canzone, mescolava un quartetto rock, un ensemble classico amplificato e il live electronics), non mancava uno sguardo antologico sul resto del mondo e sui suoi suoni con Nomaden di Joël Bons: un ampio pezzo concertante, per violoncello (Jean-Guihen Queyras) e ensemble interculturale (Atlas Ensemble diretto da Ed Spanjaard), che affiancava strumenti occidentali ed “etnici”, soprattutto asiatici (shakuhachi, duduk, sho, sheng, tombak, setar, tar, erhu, kamancha, kemençe, sarangi), in trentotto piccoli movimenti, immaginato come un «viaggio» dove il solista incontra «musicisti di diverse tradizioni ed entra in dialogo con loro». Emergevano frequenti assoli, sequenze all’unisono, dei bei momenti onirici e sospesi, alcune raffinate invenzioni timbriche negli “incontri ” tra violoncello e strumenti etnici. Ma nel complesso risultava un lavoro naïf e piuttosto noioso, considerando la lunga durata, il gusto oleografico, l’andamento rapsodico dell’insieme.
Negli ultimi giorni del festival si è esibito il madrileno Plural Ensemble, diretto dal suo fondatore Fabián Panisiello: in programma un suo pezzo intitolato à 5 che lavorava su blocchi sonori, su strutture timbrico-ritmiche più che armoniche, su belle cascate di suoni; Arquitecturas del Limite di José María Sánchez-Verdú, lavoro rarefatto, dalle sonorità puntiformi che via via si raddensavano intorno a una nota ribattuta; Nebmaat di Alberto Posadas, piccolo capolavoro ispirato alle piramidi egizie e alle misteriose simbologie di quel mondo (il titolo del pezzo corrispondeva al nome con cui era conosciuto il faraone Sneferu), fatto di una materia mobilissima, come un caleidoscopio di colori, con impasti e sonorità quasi elettroniche, che si muovevano tra registri diversi per spegnersi alla fine su una turbolenza quasi impercettibile. Il concerto dell’Orchestra della Toscana diretta da Peter Rundel è stata anche una passerella per ottimi solisti. Il clarinettista Michele Marelli ha eseguito la prima italiana di Hysteresis di Michel Van der Aa, per clarinetto, ensemble e traccia registrata: stimolato dal fenomeno fisico dell’isteresi (caratteristica di un sistema di reagire in ritardo alle sollecitazioni applicate e in dipendenza dello stato precedente), il compositore olandese ha creato una musica incalzante, con il suo tipico fraseggiare, fatto di break improvvisi, pulsazioni quasi “elettriche”, prolungati crescendo, reiterazioni ossessive, figure asimmetriche, frizioni di tipo rumoristico. Il violoncellista Fernando Caida Greco ha interpretato invece il Konzert in einem Satz di Wolfgang Rihm, pure in prima italiana, pezzo di grande lirismo, con due ampie cadenze, espansioni orchestrali dal gusto tardoromantico, alcune incursioni contrappuntistiche alla Stravinskij. La voce di Françoise Kubler e il clarinetto basso di Armand Angster sono stati infine i protagonisti del nuovo pezzo di Claudio Ambrosini, Rappresentazione di anima e di corpo per soprano, clarinetto basso e orchestra: partendo dall’idea di una sintesi tra il corpo (il legno del clarinetto e le corde vocali) e l’anima (il soffio che le attraversa creando il suono), Ambrosini ha dato vita a una materia sonora riccamente decorata, che si espandeva fluidamente, per grandi ondate, avvolgenti, integrandosi col morbido fraseggiare del clarinetto basso, e con le lunghe messe di voce, solo a tratti interrotta da esplosioni e sventagliate improvvise, ma con un carattere sempre sospeso, come un lungo incantamento.
Come un’eco un po’ sbiadita della vivace scena musicale contemporanea, ricca di sperimentazioni sceniche e performative, il festival si è concluso con un concerto con proiezioni e con le quattro operine della Biennale College, bel progetto sulla carta, ma che ha sempre dato risultati modesti. Il belga Hermes Ensemble diretto da Koen Kessels abbinava infatti dei video ai pezzi eseguiti: Atlantic Wall di Wim Henderickx, ispirato al Deserto dei tartari di Buzzati e a versi di Verlaine, accompagnava con una musica statica, ipnotica un video di Kurt Ralske basato su immagini del Vallo atlantico; a un video di Ralske era associata anche Neon Sea di Vykintas Baltakas, che giocava sull’equilibrio tra suono animato e inanimato, partendo dal ronzio di una lampada al neon; l’atmosferico Histoire du soldat inconnu di Annelies Van Parys faceva invece da “colonna sonora” all’omonimo film (del 1932) del regista belga Henri Storck, una coraggiosa denuncia delle nefandezze e delle ipocrisie del militarismo. L’abbinamento di suoni e immagini appariva in tutti i casi un po’ semplicistico, anche se comunque più profondo e pungente rispetto all’esercizio quasi scolastico, molto ingenuo dei quattro atti unici della Biennale College, nonostante l’ottima esecuzione dell’Ensemble Novecento dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, e il lodevole sforzo dei registi Francesca Merli e Pablo Solari. La più riuscita delle quattro operine, La meccanica del colore del portoghese Nuno Costa (libretto di Madalena dos Santos), aveva come protagonista uno scienziato alle prese con un robot programmato per di dipingere dei paesaggi, per fargli vedere i colori di un mondo che lui non poteva più vedere di persona, e che però creava sempre vedute irrealistiche: la dimensione grottesca della vicenda, che riprendeva il tema classico della frustrazione dell’artista di fronte al suo fallimento, era sottolineata dall’uso di alcune emissioni gutturali nella parte vocale e da una scrittura strumentale movimentata e irrequieta. In Tredici secondi o Un bipede implume ma con unghie piatte di Marco Benetti (libretto di Fabrizio Funari), un uomo per caso si imbatteva un professore in pensione che cercava di far volare un pollo: situazione surreale (come tutti i personaggi sulla scena) accompagnata da una varietà di stili musicali, sottili controcanti, echi gregoriani e rossinaiani, squarci lirici, colorature. Malriuscite, sia sul piano drammaturgico che su quello musicale, erano le altre due operine, Trashmedy di Alessandro De Rosa (libretto di Mimosa Campironi) e Ab Ovo di Talya Eliav (libretto di Liron Barchat): la prima era pretenziosamente pensata come la storia della nascita di una voce, in un futuro di morte e desolazione, dove il protagonista riusciva a percepire echi di musiche lontane da Mozart al rock; la seconda mescolava il mito della creazione e il mondo della burocrazia, raccontando di un ufficio dove veniva stabilito arbitrariamente il destino delle uova. Insomma, non proprio un gran finale.