di Luca Chierici foto © Silvia Bovo
Per la quarta volta la Società del Quartetto di Milano ha proposto al pubblico un recital del pianista canadese di origine polacca Jan Lisiecki, figura piuttosto controversa che registra un successo mediatico non sottovalutabile e che, pur non essendo passato al vaglio di concorsi internazionali importanti, sta effettuando una carriera di successo.
Confermo qui in via del tutto generale una mia prima impressione su Lisiecki, che si può leggere nelle recensioni apparse sul Corriere Musicale già dal 2014, ossia quella di un pianista, ancora in formazione, dotato di una spontaneità di approccio alla tastiera che da un verso è encomiabile e riesce a creare un rapporto diretto tra artista e pubblico, dall’altro lascia a desiderare perché sottintende una visione fin troppo ottimistica e priva di spessore e scavo in profondità dei significati del grande repertorio. L’altra sera si è anche notata la tendenza a una perdita di concentrazione che ha reso a volte imprecisi alcuni elementi non necessariamente problematici dal punto di vista puramente meccanico (in particolare i Notturni di Chopin scelti per il programma). Vale comunque la pena seguire un possibile percorso di maturazione del giovane concertista e in questo caso ripercorrere i singoli passi del recital dell’altra sera, che proponeva una impaginazione coerente ma piuttosto strana. L’alternanza tra “capricci” e “notturni”, con una “ballata” finale ha avuto senso più per l’accostamento cronologico dei titoli – gravitanti nell’area del primo romanticismo – che per motivi sostanziali di affinità tra le pagine presentate.
Il programma si apriva dunque con una esecuzione di un certo fascino del “Capriccio sopra la lontananza …” di Bach, pagina curiosa e a suo modo molto interessante che era presente nel repertorio pianistico di un tempo (l’avevamo ascoltata tanti anni fa dalle mani di Nikita Magaloff, ma anche Rudolf Serkin amava soffermarsi su questo pezzo caratteristico). Lisiecki è parso inizialmente assai convincente nella lettura partecipata e sensibile di un elemento che a dire il vero affonda le proprie radici in un genere non certo inventato da Bach, e da Bach qui utilizzato con una buona dose di ingenuità, fermi restando i più che lodevoli sentimenti di compianto nei confronti della partenza del fratello maggiore che andava ad assumere un incarico di strumentista presso la guardia d’onore di Carlo XII di Svezia. Partenza significava un tempo effettivamente “lontananza”, perché non esistevano certo i mezzi di comunicazione di oggi, ma oggi leggiamo in questa composizione del giovane Sebastiano anche una certa dose di autoironia e di esagerazione nel risolvere il motivo del distacco attraverso tragici cromatismi discendenti (gli stessi che verranno utilizzati da Bach in seguito nei grandi capolavori della maturità come la Messa in si minore e che verranno ripresi persino da Liszt nella sua parafrasi bachiana sul motivo della Cantata Weinen, Klagen, Sorgen, Zagen). Lisiecki si immerge del tutto nei turbamenti (veri o presunti tali) del giovane Bach, è convinto fino in fondo della disperazione sottintesa dal cromatismo bachiano, gioisce dell’arrivo del Postiglione annunciato dalla sua cornetta e si diverte (come si era divertito certamente Sebastiano) a trasformare il tema del corno in un soggetto per una fuga. E ne esce un quadretto meraviglioso, risolto pianisticamente in maniera esemplare. Allo stesso modo Lisiecki prende sul serio gli andamenti delle gondoliere nelle Romanze senza parole di Mendelssohn, espone in maniera scintillante la famosissima Fileuse (come la annunciava Arthur Rubinstein nei suoi bis) e giunge alle soglie di un primo Chopin presente nel programma .
I due Notturni dell’op. 27 sono stati eseguiti in maniera non significativa, così come superficiali erano la brillantezza del Rondò op. 129 di Beethoven e quella del Rondò capriccioso di Mendelssohn – ultimo elemento della prima parte del concerto. Di quest’ultima pagina, anch’essa prediletta dai grandi pianisti d’un tempo, che ne cesellavano le preziosità di linguaggio, Lisiecki ha concesso una lettura corretta quanto poco originale, incluso un finale fragoroso in ottave martellate che andrebbe invece eseguito con maggiore levità e senso dello staccato, con poco pedale. Ammettiamo pure che gli errori nei Notturni op. 27 fossero dovuti a disattenzione o stress causato dall’evento : ma ciò che non è sottovalutabile è la mancata attenzione verso il significato strutturale delle composizioni, in funzione solamente di una marcata sottolineatura del lato espressivo, quello tradizionale e un poco strappalacrime. La quarta Ballata e i Notturni dell’op. 62 filavano via lisci senza partecipazione intensa, mancando totalmente l’individuazione di quei punti di accumulazione verso i quali si concentra gran parte dell’interesse proprio dell’invenzione chopiniana.
In apertura della seconda parte del recitale si trovava l’insidiosissima Valse-caprice di Anton Rubinstein, quella che a detta del più famoso allievo del musicista, il pianista Josef Hoffman, lo stesso Rubinstein suonava a volte senza azzeccare neanche uno dei “salti” pericolosi di cui è infarcito lo spartito. Lode a Lisiecki per i salti eseguiti correttamente, ma la Valse era affrontata a un tempo estremamente comodo e mancava del tutto di quel carattere capriccioso e molto démodé che si può facilmente ascoltare (oggi, con tutto il materiale disponibile in rete) da giganti del pianismo d’antan come lo stesso Hofmann, Rosenthal, Friedmann, Paderewski. Possibile che Jan Lisiecki non abbia mai sentito questi esempi o se lo ha fatto non ne abbia tratto dei suggerimenti interpretativi? Altri suggerimenti interpretativi della stessa origine erano ascoltabili nelle Variations sérieuses di Mendelssohn, altro caposaldo della letteratura pianistica dell’800 molto amato da un esercito di interpreti di grande spicco.
Il successo è stato proporzionale alla comunicatività del giovane musicista. Per la cronaca, il concerto è stato commentato da almeno tre interventi di suonerie di telefoni cellulari, a volte impostati su tunes di origine classica, tanto che l’ascoltatore si trovava improvvisamente trascinato in contesti sonori totalmente estranei a quelli evocati nello stesso momento dal pianista sul palcoscenico.