di Luca Chierici foto © Marco Ayala
Per il suo recital autunnale in programma in diverse parti del mondo Beatrice Rana ha fatto visita alla Società dei Concerti, l’istituzione milanese che l’ha lanciata in tempi oramai lontani anche se la giovane età della pianista non permette di spingersi troppo all’indietro nei ricordi. La Rana è richiestissima in ogni dove e le stazioni radio di tutto il mondo (occidentale, per ora) trasmettono concerti in diretta per lo più con la partecipazione dell’orchestra.
L’occasione di ascoltarla in un recital dà all’osservatore maggiore agio nel notare l’evoluzione stilistica della pianista, sia nel modo di accostarsi a pagine già presentate e a maggior ragione nel caso delle nuove scelte di programma. All’interno del trittico presentato l’altra sera l’elemento nuovo, e forse quello di maggiore rilievo, consisteva nel terzo quaderno del ciclo di Iberia, opera capitale di Isaac Albéniz che si ascolta piuttosto raramente nei programmi concertistici. Si tratta di un lavoro di ampie dimensioni, una suite di pezzi che nei titoli richiamano paesaggi e situazioni tipiche di una Spagna da cartolina, ma un progetto che in realtà nasconde al suo interno un disegno di rinnovamento molto personale della scrittura pianistica ai fini descrittivi, tanto che alla fine tale rinnovamento si trasforma davvero in un nuovo modo di comunicare, al di là degli spunti narrativi. Un trattamento della scrittura pianistica irto di difficoltà, molto “scomodo” proprio perché il linguaggio adottato sembra andare contro le regole dell’ottimizzazione dello sforzo, dello studio richiesto all’esecutore. All’interprete è imposta molta fatica dunque, nel momento dello studio e della decifrazione delle linee pianistiche che spesso si sovrappongono rendendo intricatissima la possibilità di sottolineare in maniera chiara gli spunti melodici e gli stessi ritmi di danza, e nel momento dell’esecuzione, che richiede una concentrazione assoluta e i cui frutti giungono a risultati solo in parte evidenti al pubblico non specializzato. Il tipico caso, dunque, di musica che non “paga”, almeno l’esecutore in cerca di facili successi. Non è così evidentemente per Beatrice Rana, che ha coraggiosamente affrontato almeno uno dei quattro libri di Iberia, non certo il più facile, ammesso che si trovi qualcosa di facile in questa raccolta. Il lato più notevole dell’esecuzione che abbiamo ascoltato risiedeva in una notevole libertà di fraseggio, che rendeva più vivi e accattivanti i contenuti di un testo approfondito da pochi grandi pianisti seguendo sostanzialmente due filoni interpretativi. I virtuosi di un tempo, primo fra tutti Arthur Rubinstein, sceglievano fior da fiore anteponendo il carattere del pezzo alla ferrea precisione di una lettura analitica. Accadeva così che pagine come Triana acquistavano uno smalto tutto particolare, ma sarebbe stato impensabile per un pianista come Rubinstein passare ore e ore al pianoforte per studiare tutto il resto della raccolta. In epoche successive la campionessa del recupero di Iberia è stata sicuramente Alicia de Larrocha, che eseguiva spesso l’intero ciclo (della durata di un’ora e mezza) puntando soprattutto alla decifrazione del linguaggio, alla precisione assoluta, più che a sottolineare il carattere folcloristico dei singoli quadri. In questa seconda linea di interpreti troviamo ad esempio Carlo Vidusso, attratto anche dal virtuosismo funambolico di queste pagine, o più recentemente Marc-André Hamelin. Ciccolini, Arrau, Barenboim si collocano saggiamente in una via di mezzo che è tutt’altro che facile da sostenere. Per la cronaca milanese, il terzo libro di Iberia venne eseguito nella nostra sala del Conservatorio proprio dalla Larrocha nel 1989 e da Ciccolini nel 1995. Ma anche Benedetto Lupo, il docente di riferimento di Beatrice Rana, ha in repertorio almeno un libro (il secondo) e probabilmente a quell’esempio si è ispirata la nostra pianista.
Che ha proseguito il suo programma con un proprio cavallo di battaglia già molto sperimentato, i Trois mouvements de Petruska di Stravinskij, commissionati al musicista proprio da Rubinstein (ecco un fil rouge che lega almeno due parti del programma, anzi tre se si conta la manciata di Studi dell’op.25 di Chopin che Rubinstein aveva in repertorio). Anche nel caso di questi Studi si può dire che esistano almeno due linee interpretative differenti: quella più antica, rappresentata soprattutto da Cortot e da tanti altri pianisti leggendari, cercava di sottolineare il carattere narrativo dei singoli numeri; quella più recente, evidenziata negli anni ’60 e ’70 ad esempio dalle celebri incisioni di Pollini, Ashkenazy e altri grandi concertisti, tende a sottolineare sia il carattere unitario delle due raccolte sia soprattutto il significato di “studio” di ogni singolo numero, visto come un’entità meccanicamente autonoma scelta da Chopin sulla base di considerazioni di miglioramento tecnico personale. È il genio del musicista a far sì che dall’elemento tecnico di base scaturiscano come per incanto frammenti melodici bellissimi, modulazioni armoniche di estremo interesse, geniali trovate ritmiche, senza la necessità da parte dell’interprete di aggiungere deviazioni di fraseggio, accenti non scritti. Le giovani generazioni, e qui Beatrice Rana è figlia del suo tempo, tendono oggi a ritornare a una modalità interpretativa più antica, scelta che a mio parere non è più facilmente sostenibile. Certe deviazioni dal testo – un esempio per tutti la scansione del decimo studio in ottave, in si minore, eseguito accentando la prima nota della prima coppia di terzine e causando una disuguaglianza ritmica degna di rilievo – finiscono per togliere parte del significato al testo originale senza apportare granché alla portata descrittiva del pezzo. Si è poi notata da parte di Beatrice Rana una migliore rispondenza tecnico-inerpretativa in alcuni numeri del ciclo piuttosto che in altri, sempre beninteso restando all’interno di un pianismo agguerritissimo e miracolosamente poco scalfito dalla routine.
La serata si è conclusa all’insegna del successo completo con la concessione di tre bis che facevano capo al repertorio consolidato della pianista, spaziando da Ravel a Chopin e Bach.