di Monika Prusak foto © Franco Lannino
Un’apertura ambiziosa quella della nuova Stagione di Opere e Balletti 2020 per il Teatro Massimo di Palermo che mette in scena il Parsifal wagneriano in coproduzione con Teatro Comunale di Bologna. Tra lo staff internazionale coinvolto nella produzione spiccano il nuovo Direttore Artistico del Teatro Omer Meir Wellber e il regista inglese Graham Vick, supportati da Timothy O’Brien alle scene, Mauro Tinti ai costumi e Giuseppe Di Iorio alle luci. Le azioni mimiche sono di Ron Howell.
Graham Vick ritorna al teatro palermitano dopo tre anni dall’ultima giornata dell’Anello di Nibelungo, prodotto dal Teatro Massimo in quattro puntate tra il 2013 e il 2016. Anche nel Parsifal, il teatro di Vick si spoglia della scenografia e persino delle pareti, mostrando il vuoto delle quinte scoperte come se volesse tornare alle origini del teatro antico con al centro l’attore. Ed effettivamente nulla ci distrae dal “dramma sacro”, il cui misticismo viene ampliato dai riferimenti spirituali che trascinano in modo assoluto: la musica e l’immagine rapiscono e commuovono allo stesso tempo, portando lo spettatore in una dimensione mistica inaspettata.
Le scene, apparentemente statiche, esigono una recitazione particolarmente curata ed è proprio questo il tratto distintivo della regìa di Vick: il cantante è un attore a tutti gli effetti, chiamato a trasmettere il mito in maniera chiara e intellegibile. Oltre l’essenzialità del teatro anche altri aspetti riportano in mente quello che Wagner chiamava un’opera totale, ovvero il connubio classico della mousiké: poesia, musica e danza. Una trovata eccezionale quella delle ombre danzanti – prima in armonia e successivamente con gestualità violenti – sostenute dal suono possente delle campane situate dietro la platea: lo spettatore è imprigionato dal suono e dal movimento che fluisce ininterrottamente su un nastro bianco teso ai lati del palcoscenico. Toccanti e suggestive le scene con i cavalieri-soldati del Medio-Oriente, assolti in preghiera e in assoluta fedeltà al Graal, il cui custode, Amfortas, è un Cristo con una ferita aperta al fianco e la corona di spine. Ugualmente forte appare l’associazione di Kundry – la “selvaggia” del deserto travestita da una bella donna che seduce Parsifal – con sua madre e con l’immagine di Maria Maddalena, rappresentata da una gigante icona. È musicalmente e scenicamente sorprendente il momento delle fanciulle-fiori, durante il quale il palcoscenico si riempie di giovani seminude che tentano Parsifal con il loro sinuoso canto.
Numerosi gli interpreti presenti sul palcoscenico e tutti di altissimo livello. Tra i protagonisti il geniale Tómas Tómasson in Amfortas, Alexei Tanovitski in Titurel, John Relyea in Gurnemanz, Julian Hubbard in Parsifal, Thomas Gazheli in Klingsor e Catherine Hunold in Kundry. Accanto a loro il primo e il secondo Cavaliere del Graal, rispettivamente Adrian Dwyer e Dimitry Grigoriev, quattro Scudieri, Elisabetta Zizzo, Sofia Koberidze, Ewandro Stenzowski, Nathan Haller, e le sei Fanciulle incantate di Klingsor, Elisabetta Zizzo, Sofa Koberidze, Alena Sautier, Talia Or, Maria Radoeva e Stephanie Marshall. Stephanie Marshall interpreta anche la Voce dall’alto. Omer Meir Wellber propone una direzione coerente con l’andamento scenico dello spettacolo, guidando l’Orchestra del Teatro Massimo con grande disinvoltura. Una nota va al Coro e al Coro di voci bianche del Teatro Massimo, preparati dai Maestri Ciro Visco e Salvatore Punturo, perfettamente affiatati e puntuali negli interventi.
Nonostante la grande professionalità della produzione, nonché la particolare bellezza della musica wagneriana e della rappresentazione moderna di Graham Vick, qualche spettatore ha deciso di abbandonare la platea prima della fine dello spettacolo, mentre qualcun altro ha dimenticato di spegnere il telefono cellulare rovinando momenti preziosi agli spettatori. Parafrasando lo stesso Richard Wagner in Religione ed arte (1880) il quale riferendosi al Parsifal scrive: «Il compito di salvare la religione spetta all’arte, la quale, impossessandosi dei simboli mitici autenticizzati dalla stessa religione, ne dà una rappresentazione ideale e ne fa trasparire la verità profonda», il compito di salvare l’arte spetterebbe proprio agli spettatori, i quali, raggiungendo la conoscenza dell’arte stessa, né possono dare testimonianza viva cercando di comprendere la sua profonda universalità.