di Luca Chierici foto © Clarissa Lapolla
Coraggiosamente, anche in quest’anno nefasto, il Festival della Valle d’Itria prosegue la propria programmazione – è al suo quarantaseiesimo anno di vita – pur limitando, o meglio rimodulando l’originale cartellone attorno alla scelta della figura di Arianna e in particolare dell’opera che costituisce uno dei punti irrinunciabili dell’arte di Richard Strauss e della sua intensa collaborazione con Hugo von Hofmannsthal. Non sarebbe stato però nelle corde delle caratteristiche sperimentali, di ricerca continua del Festival, presentare la versione definitiva di Ariadne auf Naxos così come oramai da molti anni è conosciuta nei teatri di tutto il mondo. Ariadne, nella sua versione terminata nell’ottobre del 1916, è un lavoro estremamente complesso nel quale si fondono felicemente tutte le istanze che avevano dato vita a un progetto di quattro anni precedente, andato in scena al Teatro di Corte di Stoccarda, con la compagnia teatrale di Max Reinhardt e la direzione dello stesso Strauss. Progetto che vedeva l’accostamento di un ripensamento della comédie-ballet Le bourgeois gentilhomme di Molière già musicato da Jean-Baptiste Lully nel 1670 (e divenuto qui Die Bürger als Edelmann) e di un atto unico centrato sulla figura dell’Arianna abbandonata da Teseo, che lo stesso borghese gentiluomo, Monsieur Jourdain, fa rappresentare nel suo palazzo. Il contesto attorno al quale si sviluppò questo progetto primario è in realtà ancora più complicato e vede un precedente scambio di idee tra Max Reinhardt e Hofmannsthal che risale addirittura al 1909, e dettagliati schemi di svolgimento musicale da parte di Strauss, tutti elementi molto interessanti sui quali non ci si può qui soffermare.
L’esperimento del 1912 non ebbe successo sostanzialmente per motivi di lunghezza complessiva, ma non solo, e i motivi si capiscono benissimo col senno di poi anche attraverso questa riproposta martinese in due serate. In sintesi, la prima parte (il Borghese gentiluomo) rilegge con criteri parodistici un originale a suo modo irripetibile che troverà una propria definizione non attraverso una seconda versione del 1917-18 ma grazie a una suite orchestrale approntata da Strauss nel 1920, mentre la seconda (Ariadne auf Naxos) risulta essere un lungo abbozzo, a volte fedele, a volte mancante di parti preziose, della versione definitiva del 1916, che prevede un Prologo aggiungendo dramma al dramma con l’inserimento di un gustoso siparietto in cui si consuma un contraddittorio, tragico tra le figure del Compositore, del Maestro di Musica, del Maggiordomo, surreale con la comparsa delle smaliziate figure di Zerbinetta e delle maschere. E soprattutto durante l’Opera, l’ascoltatore rotto a tutte le emozioni della versione definitiva è colto da reazioni ansiose e depressive nell’ascoltare sviluppi ancora acerbi nelle parti giustamente rimaste più famose, leggi soprattutto la grande scena di Zerbinetta e il pomposo ma commovente finale, con quella chiusa sussurrata e timbricamente preziosissima.
A complicare la versione martinese del dittico, l’originale Borghese gentiluomo riviveva sì attraverso le musiche di scena straussiane ma vedeva l’inserimento di tre monologhi di Stefano Massini, ben recitati da Davide Gasparro, dedicati alle rivendicazione delle ragioni dell’Arte e degli Artisti soprattutto in questi momenti grami, mentre per l’Ariadne versione 1912 si optava per una nuova traduzione ritmica del libretto di Hofmannsthal in lingua italiana approntata da Quirino Principe. In quest’ultimo caso, al di là della bravura del traduttore, notiamo solamente come decenni di versioni tradotte di opere originariamente in lingua straniera non sono stati sufficienti a estirpare un cancro che ha accompagnato la tradizione del teatro in musica nel nostro paese almeno fino agli anni ’50 del secolo passato. Indietro non si torna, se non per progetti specifici di natura storica.
I due spettacoli del Festival, fermo restando il già accennato merito di recupero storico-critico, hanno visto nella parte musicale e vocale i loro punti di forza. Fabio Luisi, che aveva già affrontato Ariadne nella versione definitiva al Metropolitan una decina d’anni fa, si è calato con maestrìa nella concertazione della versione precedente e a voler spaccare il capello in quattro la prestazione sua e dell’Orchestra del Petruzzelli ha solamente tradito le sottigliezze della scelta strumentale originaria, a causa dell’esecuzione all’aperto nel cortile di Palazzo Ducale. Non si poteva infatti in quel contesto realizzare la perfetta alchimia sonora inventata da Strauss, che fa risuonare in teatro un’orchestra ad elementi limitati attraverso una ricchezza di timbri e di volumi straordinaria. Le voci hanno quindi spesso avuto la meglio in termini di presenza turbando un equilibrio raffinatissimo. Da parte sua Michele Spotti ha condotto con inventiva e spirito le musiche di scena del Borghese gentiluomo sobbarcandosi la non facile impresa di affrontare una versione ancora in fieri.
Nell’Ariadne si è ammirata una compagnia di canto omogenea e perfettamente a proprio agio con le impervie richieste del titolo, già nella prima versione. Questo è vero soprattutto per la protagonista, Carmela Remigio, calata perfettamente nel ruolo, per la Zerbinetta di Jessica Pratt, virtuosa e leggera, e per il Bacco di Piero Pretti. Quest’ultimo ha affrontato con sicurezza e senza alcuno sforzo palpabile un ruolo di difficoltà proibitiva per l’uso della tessitura acuta a volume elevato dall’inizio alla fine. Accanto a loro si è ammirato un prezioso quartetto delle maschere, con Vittorio Prato, sempre più sicuro di sé vocalmente e sulla scena, Manuel Amati, dalla voce svettante, Vassily Solodkyy e Eugenio di Lieto e il trio di ninfe (Barbara Massaro, Ana Victoria Pitts e Mariam Battistelli: a riascoltare il loro apporto sembra di cogliere davvero un intento parodistico di Strauss nei confronti dei tre personaggi che aprono l’Oro del Reno) . Nel Bürger als Edelmann si è ammirata ancora la figura di Vittorio Prato nel ruolo di Jourdain e quelle dei comprimari (Pitts, Massaro, Amati e Solodkyy tra gli altri).
Il lato infelice dell’operazione riguardava certamente l’impianto registico di Ariadne (Walter Pagliaro, con elementi scenici di Gianni Carluccio e costumi sgargianti di Giuseppe Palella): poche idee oltretutto ingiustificate da una tradizione di messe in scena dell’opera che sono sotto gli occhi di tutti, a partire da quella che richiama già in Hoffmansthal L’isola dei morti di Böcklin. Meglio si è comportato Davide Gasparro per la sua mise en espace nel caso del Borghese gentiluomo, essenziale e non prevaricante. Pubblico a scacchiera e successo franco, e il cortile del Palazzo Ducale era quasi pieno, come ai bei tempi.