di Attilio Piovano
Un Teatro Regio a Torino – la sera di venerdì 4 settembre scorso – occupato da sole 200 persone, in doppio turno (ore 20 e replica significativamente distanziata, per consentire la sanificazione della sala, alle 22,30), un Regio dove pregustavamo una serata di festa nel segno della ripresa, dopo mesi di digiuno quasi totale di musica live a seguito delle note vicende legate alla pandemia; e invece ne abbiamo ricavato un’impressione generale di tristezza e malinconia che impongono serie riflessione sulla ‘vera’ ripresa delle attività musicali, teatrali, e quant’altro, insomma sulla attuale difficile situazione in cui versa il mondo dello spettacolo.
Già il pur doveroso rito iniziale delle auto certificazioni all’ingresso, poi i percorsi obbligati indicati da cordoni rossi e frecce sul pavimento, il sacrosanto distanziamento in sala (ci mancherebbe), l’impossibilità di abbracciare e salutare con gioia irriconoscibili amici, colleghi, aficionados e habituées nascosti dalle mascherine d’ordinanza (più che dovute e doverose, beninteso), hanno reso il tutto incredibilmente malinconico. Dacché esiste a Torino Settembre Musica – ‘inventato’ nel 1978 e poi sfociato, più di recente, nel festival MiTo col quale si è realizzato un gemellaggio musicale significativo tra la città della Mole e quella della Madonnina – mai avremmo saputo immaginare un’inaugurazione (forzosamente) sottotono come quella dell’edizione 2020, apertasi al Regio, per l’appunto, con replica a Milano la sera seguente.
Sul palco gli archi dell’Orchestra Sinfonica Verdi di Milano (limitati a soli venticinque elementi) opportunamente distanziati anch’essi per intuibili ragioni; la collocazione stessa degli orchestrali (oltre alla inevitabile limitatezza di organico) produceva un ‘effetto’ stranito e straniante sotto il profilo acustico. Sul podio l’esuberante Daniele Rustioni, gesto incisivo ed efficace, ha fatto del suo meglio per variare colori e sfumature della compagine (una compagine invero non sempre impeccabile che ha rivelato qua e là sbavature varie e imprecisioni, quantomeno nella ‘sessione’ alla quale abbiamo presenziato). Rustioni è peraltro riuscito nell’intento di sfumare i colori soprattutto nella sempre amabile «Serenata op. 22» del boemo Dvořák collocata in chiusura di serata, tutta delicatezze ed eleganze, ma anche estroverse danze imbevute di humus folklorico, garbato lavoro che è sempre piacevole riascoltare, nel quale è pur tuttavia sotteso un che di malinconico.
E proprio un certo qual colore elegiaco – lo ha sottolineato Stefano Catucci nella sobria presentazione iniziale – costituiva, certo intenzionalmente, il fil rouge del programma della serata che annoverava al centro, come piatto forte, la trascrizione per violino e orchestra d’archi (di Alexandru Lascae) del «Souvenir d’un lieu cher op. 42» di Čajkovskij: pagina ben interpretata dall’impeccabile e sensibile Francesca Dego. Suono corposo dove occorreva, ma anche estenuate rarefazioni, intonazione infallibile e intesa perfetta col direttore Rustioni che della Dego è il consorte, una coppia artistica e nella vita. Ottima performance, dunque quella della Dego, tanto da porre in ombra, almeno in parte per quanto era possibile, le innegabili ed eccessive lungaggini di cui soffre inesorabilmente il primo movimento (Méditation), punteggiato di inutili digressioni, non certo tra le cose migliori uscite dalla penna di Čajkovskij. Poi via col più animato Scherzo, una sorta di pur trattenuto perpetuum mobile incline peraltro ad effusioni melodiche e infine la conclusiva Mélodie che chiude il brano dalla evidente struttura ternaria ancora all’insegna di un tono meditativo, se non mesto. Un pezzo che non induce certo alla voglia di bis.
E infatti il bis c’è stato solamente a fine serata (facile immaginare l’effetto ‘depotenziato’ che producono sole 200 persone impegnate ad applaudire pur con discreta convinzione in una sala dalla capienza di 1800) e si è trattato della più nota e festosa delle «Danze ungheresi» di Brahms: ma che groppo alla gola, ricordando compagini presenti nelle scorse edizioni quali la Budapest Festival Orchestra (per non dire della LSO nel lontano 1986 con Rostropovič e Maxim Šostakovič), l’Orchestra del Mariinskij di San Pietroburgo o la Filarmonica della Scala. E dire che Rustioni, sorridente e ottimista, come è giusto, ce l’ha messa davvero tutta per rendere il magnetismo irresistibile della nota composizione e restituirne al meglio la fragranza e l’appeal.
In apertura si era ascoltato (in prima italiana) «Pilgrims» del novecentesco e norvegese Ned Rorem, classe 1923, naturalizzato statunitense. Di pagina gradevole e pur innocua si tratta, datata addirittura 1958, in bilico tra tonalità e modalismo, dalla scrittura densa, a tratti estatica, con aspirazione ad evocare un certa ritualità collettiva, memore di quaccheri &c. attinta al vissuto autobiografico dell’autore: brano venato d’un certo spleen e un che di teneramente nostalgico, ingredienti che tuttavia, pur miscelati ad arte, non bastano per farlo decollare. Insomma, una inaugurazione di Festival che ha rivelato con impietoso realismo quanto il mondo della ‘classica’ e dello spettacolo in generale sia prossimo al collasso, se non cambieranno le regole (ovvero se non muterà la situazione epidemiologica, cosa che il mondo intero ragionevolmente ed auspicabilmente si augura), un universo – quello dello spettacolo live – che impietosamente collide con la situazione di spiagge affollate (absit iniuria verbis) e financo sagre paesane – fuori da ogni polemica sterile – dove di distanziamento e limitazioni di capienza non sembra importare nulla a nessuno. Per dirla tutta, entrare al Regio in quelle condizioni stringeva davvero il cuore. Punto e a capo.